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·4. November 2025
Napoli, Conte “è un uomo solo”. L’ambiente lo accompagna solo nella vittoria…

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Antonio Conte non è solo un allenatore di calcio: è un costruttore di mentalità. Eppure, a Napoli, anche lui sembra scontrarsi con un paradosso antico. Come ha scritto Massimiliano Gallo sul Corriere dello Sport, “Conte si rassegni, a Napoli è un uomo solo”.
Il tecnico azzurro guida la squadra in vetta alla Serie A, ma si ritrova circondato da un ambiente che, anziché esaltarlo, tende a consumare la propria energia nella critica continua. Il suo sfogo in conferenza stampa lo riassume perfettamente: “Siamo primi in classifica e sentiamo solo critiche. Abbiamo avuto difficoltà assurde fin dall’inizio, eppure si cerca sempre il bicchiere mezzo vuoto”.
Il cortocircuito napoletano
Conte si difende dai media, ma il nodo è più profondo: i media a loro volta riflettono le opinioni di una piazza che vive in uno stato di insoddisfazione permanente. A Napoli la cultura della vittoria non è mai diventata normale, e ogni successo viene accompagnato da un sospetto, da un “sì, ma…”.
È una dinamica che non riguarda solo il calcio: è un tratto culturale, una forma di autocritica sistemica che diventa autodistruttiva. Gli infortuni, ad esempio, sono trattati come scandali. “Solo a Napoli succede”, si dice. Eppure, il Barcellona ha avuto quindici stop muscolari in due mesi, e nessuno ha messo sotto processo Flick.
Questo rumore di fondo si è trasformato in un peso psicologico costante, anche per chi, come Conte, ha costruito carriere intere sull’idea di compattezza e sacrificio.
L’eredità del sarrismo e la nostalgia del bello
“Si stava così bene da secondi”, scrive Gallo, “col premio della critica e a lamentarsi degli arbitri”. È una frase che riassume alla perfezione la nostalgia estetica che aleggia sulla città. Il “sarrismo” ha lasciato in eredità un gusto per la bellezza senza cinismo, per il possesso palla come forma d’arte più che di efficacia. Da allora, vincere non è mai bastato: serve farlo “bene”, “divertendo”, “dominando”. E se non si domina, si soffre troppo.
Ma Conte non è Sarri. E Napoli, oggi, è un club moderno, solido, aziendalmente maturo. È tutto ciò che il tifo non è mai diventato: razionale, strategico, sostenibile.
Napoli è cresciuta, la piazza no
Oggi il Napoli è probabilmente la società più organizzata d’Italia: proprietà stabile, ricavi in crescita, un allenatore di primo piano e una rosa di talento. Eppure, “l’entorno” – come direbbero in Spagna – è rimasto quello di una città che si sente sempre a un passo dal tradimento. Non è un problema di passione, ma di educazione sportiva: la vittoria non è percepita come un processo, ma come un diritto immediato.
In Italia, questo è un male comune. Non esiste ancora una vera cultura dello sport, fatta di tempi lunghi, fiducia nel progetto, accettazione dell’errore. Persino Sinner, nel tennis, è stato travolto dalla logica del “tutto e subito”. Figuriamoci Conte, in un ambiente che pretende di vincere e di farlo con lo stile che piace al pubblico.
Il paradosso del percorso
Conte è un uomo abituato a costruire muri e a combattere battaglie. Ma a Napoli si ritrova a combattere anche contro la propria gente. “Il percorso non interessa a nessuno”, osserva Gallo. E forse è proprio questo il limite culturale più profondo: il disinteresse verso la crescita, l’ossessione per il risultato immediato.
Lukaku, ad esempio, è stato accolto con scetticismo, nonostante la sua importanza tattica. Pochi comprendono quanto pesi l’assenza di De Bruyne, quanto complesso sia inserire nove nuovi giocatori, o quanto solitaria sia la battaglia mediatica che Conte conduce ogni settimana.
Napoli stressa, dice qualcuno. Ma in realtà è l’Italia a stressare i propri protagonisti.
La lezione di Velasco
“Se Julio Velasco avesse allenato a calcio, sarebbe finito come Luis Enrique a Roma”. È un paragone perfetto. In Italia amiamo i maestri finché restano nel perimetro della teoria. Appena scendono in campo, pretendiamo che vincano subito, senza errore, senza pazienza.
Velasco è diventato un simbolo perché ha insegnato lo sport altrove, dove c’è ascolto. Nel calcio italiano, probabilmente, sarebbe stato travolto dall’insofferenza di chi non concepisce la sconfitta come tappa, ma come colpa.
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