Pagine Romaniste
·27. März 2025
Totti: “Non posso lasciare questa città. All’inizio credevo che la fascia fosse momentanea, speravo che l’addio non arrivasse mai””

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Francesco Totti, ha rilasciato una lunga intervista in esclusiva ai microfoni di Cronache di Spogliatoio, durante il meet & greet fatto all’ Iliad Store di via Cola di Rienzo a Roma. Ecco le sue dichiarazioni:
Su Giannini, il tuo idolo.
“Sono cresciuto con l’idolo in casa. Era Giuseppe Giannini. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e di studiarlo in allenamento, di capire i movimenti, come giocava. Persona straordinaria, mi ha dato tanti consigli e mi ha insegnato molto. La prima volta che sono andato in ritiro con la prima squadra ero in camera con lui. Non ho dormito, me lo guardavo perché era una cosa che non pensavo potesse mai accadere“.
Prima partita vista da bambino.
“Mi ricordo un Roma-Napoli, giocato di sabato alle 14. Stavano ristrutturando l’Olimpico, fece gol Voller al 90′ di testa mi sembra“.
Ricordi giovanili legati alla Roma.
“Da bambino aspettavo la domenica in casa, rispetto ad adesso c’era solo 90esimo minuto, potevi sentire solo la radio e avevi quella mezz’ora per guardare tutti i gol della Serie A. Essendo un grande tifoso della Roma la vedevi da innamorato ma senza troppo trasporto. Ho iniziato a viverla a 13/14 anni quando ho iniziato ad andare in Curva con mio fratello, mio cugino. Prima si giocava alle 14, uscivamo la domenica mattina presto con i panini con la frittata fatti da mamma a casa. Andavi fuori allo stadio, giocavi a carte, parlavi con tutti, era una domenica divertente in tutto. I 90 minuti di partita speravi che andasse nei milgiori dei modi“.
Il momento in cui sei diventato il capitano della Roma.
“Dopo una partita a Bergamo, mi ricordo Aldair che disse alla squadra che era giusto che diventassi capitano della Roma. Lui credeva tantissimo in me. Lì per lì l’ho presa con tranquillità, senza rendermi conto di quello che stesse accadendo. Invece da quella domenica in poi ho avuto un peso sulle spalle difficile da spiegare. Romano, romanista e Capitano della Roma, numero 10 ogni settimana la gente si aspettava qualcosa in più da me. Fortunatamente conoscendo la piazza riuscivo un po’, con l’esperienza, a mettere un ovatta intorno alla squadra“.
Cosa ha reagito la tua famiglia quando hai comunicato di essere diventato capitano?
“Ma nemmeno sono stato io a dirglielo, l’hanno saputo dalla stampa, anche perché all’inizio credevo fosse una cosa momentanea… e invece poi“.
Litigare con i compagni ti sarà capitato.
“Non sono mai stato un capitano che insulta o che attacca al muro i compagni. Non ho quel carattere, anche se avevo delle antipatie con qualcuno ci passavo sopra per il bene della squadra, cercavo di gestire la situazione anche con chi non si comportava bene. Io ho sempre pensato che dovessi far sentire la mia personalità dando quel qualcosa in più in campo. Poi ci sono state delle litigate.. una volta in Champions litigaì con Burdisso all’intervallo. Ma già dopo mezz’ora ero dispiaciuto“.
Pizzarro ha detto che il ricordo più bello della sua carriera era fare le partitelle di allenamento con te, sotto gli occhi di tuo papà.
“Mio padre era amatissimo a Trigoria. Arrivava verso le 9 di mattina e portava le pale di pizza di ogni tipo. Noi prima dell’allenamento portavamo la pizza a massagiatori, baristi e giardineri e la maggior parte dei giocatori mangiava 1/2 pezzi prima di scendere in campo. Lo aspettavano sempre mio padre pure all’entrata, erano innamorati tutti di mio padre. Tutta Trigoria si ricorderà per sempre di lui, era una persona buona. Lo soprannominavano lo Sceriffo perché cercava sempre di accontentare tutti“.
Hai detto che non sei più entrato a Trigoria.
“No, ogni volta che portavo mio figlio a Trigoria ad allenarsi lo lasciavo là davanti e me ne andavo. Oppure aspettavo fuori come tutti i genitori degli altri ragazzi. Non sono più entrato da quel giorno“.
Rapporto con Nesta.
“Alessandro è un altro pezzo di Roma, un “cugino”. Diciamo che nel periodo calcistico non ci siamo mai frequentati, perché non era rispettoso nei confronti delle tifoserie. Adesso una cosa del genere farebbe effetto ma nessuno gli potrebbe dire niente. Roma è bella anche per questo. Abbiamo trascorso insieme tutte le trafile giovanili, abbiamo vinto un Mondiale insieme. L’ho sempre reputato uno dei più forti al mondo nel suo ruolo”.
Prima cosa che pensi e associ alla parola “derby”.
“Ricordo quando Mazzone mi fece entrare da giovane, e presi rigore con Paolo Negro. Il mister mi disse solo “entra e divertiti”, ero giovane non avevo tanto pensieri. Man mano che passavano gli anni sentivo la pressione, erano derby pesanti che non volevi mai perdere, per gli sfottò. I derby erano belli anche fuori dal campo, come ho detto in altre interviste se ne parlava 2/3 mesi prima della partita, tanti tifosi preferivano vincere i due derby che lo Scudetto quasi. Io preferivo lo Scudetto“.
Il più grande rivale da calciatore?
“Rivali per me non ci sono mai stati. Fondamentalmente ci conoscevamo tutti, chi più o chi meno. Durante i 90 minuti odiavi pure Nesta, ma a fine fischio tornavi ai vecchi tempi. Rivali è una parola che personalmente non è mai piaciuta“.
Difensori più difficili da affrontare?
“Non c’è né uno in particolare. Ma c’erano certi cani…prendevo delle belle “stecche”.
Il rigore contro l’Australia al Mondiale 2006.
“Non dico che ci ha consacrato ma è stato il momento che ci ha fatto dire “Arriviamo fino alla fine”. È stata una partita un po’ particolare, eravamo rimasti in 10 per l’espulsione di Materazzi. Ai supplementari non so come sarebbe andata sinceramente, l’Australia era una bella squadra, compatta. Quel pallone era un macigno perciò dopo aver segnato capimmo che potevamo vincere il Mondiale. Io di quel rigore mi ricordo i 70 metri infiniti per arrivare al dischetto del rigore. Mentre camminavo ho pensato “Mo gli faccio il cucchiaio”, poi ho ripensato “Lascia perdere”, parlavo da solo come un matto. Al momento del fischio, siccome il portiere era bello grosso occupava tutta la porta, ho detto “Tiro forte e alto e come va va”. E andata benissimo“.
Mondiale in cui avevi fatto di tutto per recuperare.
“Diciamo che per me è stato un Mondiale ad alto rischio. 3-4 mesi prima avevo avuto un bruttissimo infortunio alla caviglia e c’era la possibilità di non poterlo giocare. Con la voglia e la determinazione, e lo stimolo di mister e compagni ho spinto sull’acceleratore per poter esserci“.
Come avresti tirato l’ipotetico rigore con la Francia?
“Uguale a quello con l’Australia. Ero contento di non tirarlo, qualche responsabilità te la tieni. Se fossi stato in campo avrei tirato sicuramente e così. Fu una finale tosta, venivamo dai supplementari con la Germania, avevamo di fronte una grande squadra come la Francia, i principali vincitori. E stata una bella lotta, una finale giusta, infatti è andata ai rigori”.
Siete in contatto voi del gruppo del 2006?
“Sì, ogni tanto organizziamo qualche cena tutta la squadra. Ci ritroviamo, sono quelle cose che non potrai mai dimenticare. Abbiamo una chat di squadra. Chi scrive di più? Quelli che non c’hanno niente da fare (ride, ndr). Fanno quasi tutti gli allenatori, ci siamo tutti tranne il mister”.
Il gol contro il Manchester City in Champions League.
“Un gol che non sembravo io, ho fatto uno scatto di 30-40 metri come avessi 20 anni, ma ne avevo 38. è stato un gol bello e difficile, bella anche l’azione come è nata. è stata inusuale perché sono andato io ad attaccare la profondità, di solito ero io che lanciavo in profondità. Quel periodo stavo bene fisicamente, come tutta la squadra. In questa partita ancora non avevamo mai perso, sia in campionato che in Champions. Il City aveva grande giocatori, ma anche la nostra era una grande squadra”.
Il passaggio da punta centrale.
“Inizialmente a me piaceva più fare assist che gol, poi andando avanti ho capito che i gol erano leggermente più importanti. Io essendo trequartista il mio ruolo era quello di mettere gli attaccanti nelle condizioni di segnare. E poi c’è stato una casualità: che mister Spalletti mi mette falso 9 perché non avevamo attaccanti. Era a Genova contro la Sampdoria. Ho fatto gol e non ha cambiato più”.
Diverse epoche in cui hai giocato.
“In questi 25 anni di carriera non è semplice mantenere certi livelli. Io man mano che andavo avanti prendevo più forza e fiducia, credevo tanto in me stesso. Convinzione voglia e determinazione hanno fatto la differenza. Da capitano dovevo dare sempre qualcosa in più, e mi divertivo ancora di più”.
I due attaccanti più forti con cui hai giocato?
“Cassano, che non era una prima punta ma con Capello giocavamo un po’ come volevamo. Poi dico Salah, era il giocatore perfetto per come giocavo io. Non ci siamo nemmeno gustati tanto, io ero a fine carriera e lui stava esplodendo. Se ci fossimo incontrati a metà strada…”
Murales su di te.
“Giro poco per Roma, mi riconoscono sempre. L’affetto della gente mi gratifica ma rende la vita privata molto complicata, non ho possibilità di fare niente. Se adesso facessi una passeggiata qua per fare 50 metri ci metto due ore, perciò evito. La cosa più strana? tante cose sono successe a Roma, la più eclatante è che la gente mi bacia le scarpe, una cosa da pazzi, che ti lascia stupefatto. Mi è capitata più di una volta. Pure l’aneddoto a Regina Coeli. In genere andavamo a trovare i detenuti nel periodo di festa. C’era questo ragazzo che doveva uscire una settimana prima ma ha saputo che noi giocatori della Roma saremmo andati lì a salutarli. é andato in segreteria e ha chiesto al direttore di farsi una settimana in più per potermi incontrare. Ma quando me l’ha detto non pensavo fosse vero, ma il direttore confermo tutto”.
Hai mai pensato che questo amore fosse “troppo”?
“Via in un altra città? Alcune volte mi viene da pensarlo ma non posso lasciare questa città. Mi identifico con questa città, ci sono cresciuto e morirò qui, come è giusto che sia”.
Addio al calcio.
“Non ho mai pianto come tutti quei giorni, prima durante e dopo. Non è finita lì, alcune volte dovevo pure un po’ fingere. è stato un giorno da una parte bellissimo, che ogni calciatore vorrebbe vivere: sei tu con 80-100 mila persone che sono lì per te, per applaudirti e piangere per tutte le cose che hai fatto. Allo stesso tempo è stato il punto di arrivo, la fine di tutto…speravo che quel giorno non arrivasse mai. Ma il calcio come in tutte le cose, ha un inizio e una fine. è difficile far capire le emozioni di quella giornata che abbiamo vissuto io e loro. Fare il giro di campo e vedere tutti piangere, ero contento e amareggiato allo stesso tempo. Per me il rettangolo verde è stato il mio pane quotidiano, la mia passione, è stato tutto per me. Quello che sentivo l’ho sempre trasmesso sul campo per far contenta questa gente“.
“Concedetemi un po’ di paura” è diventata una frase celebre… ti è capitato di provare paura?
“Sì, l’ho avuta e ogni tanto mi torna. Ero abituato ad avere tutto programmato, dalla mattina alla sera. Non sapevo cosa volessi fare dopo, non era stata voluto. È stato all’improvviso ed è stata una bastonata pesantissima, ma era giusto che arrivasse. L’avrei vissuta diversamente e ammorbidita. Non me lo aspettavo, soprattutto il modo: inizialmente mi avevano detto una cosa e poi è stata viceversa, non voglio più parlarne. Non voglio vivere di rimpianti, quella giornata è stata indimenticabile e non ne ho fatta un’altra d’addio, non aveva senso”.
Sembrava che potessi tornare a giocare. È vero?
“C’è stato un incontro con alcune persone nell’ambito calcistico, con un giocatore con cui ho giocato che scherzosamente mi ha chiesto se potessi dare una mano. E io gli ho detto che gli voglio bene ma non sono un ragazzino, mi ha detto che mi fossi allenato 2-3 mesi avrei potuto fare quella pazzia. Mi ha fatto scattare qualcosa e ho pensato di riniziare ad allenarmi, mi sentivo bene e non avevo problemi fisici. Il fisico reagiva e l’ho chiamato: ‘Non sto male, ma mi serve un altro mese buono’. Mi ha detto che mi avrebbe aspettato. Poi niente, mi sono fermato e ho pensato che non sono andato in altre squadre quando potevo e poi fare 6 mesi in un’altra squadra non mi sembrava corretto. Rimanere con un’unica maglia, penso che nessun altro riuscirebbe a farlo. Io e Maldini, non ce ne sono tanti. Ho parlato con le 2-3 persone vicino a me, per rispetto di quello che ho fatto non sono andato avanti. È mancato tanto così, sarebbe stato diverso e impensabile, quello mi spingeva. Anche perché non avrei fatto brutte figure per quello che c’è in giro, potevo stare in un contesto di squadra e potevo aiutare i giovani. Non ho mai detto la squadra per rispetto dell’allenatore e del club. Ora basta altrimenti divento patetico e pesante. Certo che se dovesse chiamare la Roma ci penserei (ride, ndr)”.