Calcio e Finanza
·12 July 2025
Dal “campionato non allenante” al dominio: così il PSG ha trasformato il limite della Ligue 1 in un vantaggio coi soldi del Qatar

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·12 July 2025
Chelsea e Paris Saint Germain, che domenica sera si giocheranno la finale del Mondiale per Club, termineranno la stagione 2024/25 dopo circa un anno dalla data del loro raduno estivo nel luglio 2024. Un’annata extra large che ha avuto esiti notevoli per i londinesi e storici per i parigini: i Blues di Maresca hanno centrato l’obiettivo stagionale di tornare in Champions League mediante il piazzamento in Premier e di vincere la Conference League (un trofeo quasi dovuto vista la differenza esistente con le avversarie).
Invece la squadra di Luis Enrique ha compiuto qualcosa che resterà negli annali portando per la prima volta la Champions League a Parigi e centrando un triplete con Ligue 1 e Coppa di Francia. Non solo, il “treble” nel corso del 2025 potrebbe diventare addirittura un settebello se il PSG dovesse vincere non solo la partita di stasera ma anche assicurarsi la Coppa Intercontinentale a fine anno, la Supercoppa Europea in agosto contro il Tottenham Hotspur a Udine e la Supercoppa di Francia contro l’Olympique Marsiglia.
In termini economici il raggiungimento della finale è stata una manna dal cielo per le due squadre:
Per altro, per meglio capire la portata economica di questo torneo si pensi che l’Inter nell’esercizio terminato al 30 giugno dovrebbe registrare ricavi record per oltre 500 milioni grazie ai premi UEFA (132 milioni) e degli incassi assicurati dal percorso di Champions League (oltre che dagli incassi di campionato e Coppa Italia). Però va notato che nei soli 15 giorni della sua esperienza al Mondiale per club nerazzurro ha intascato qualcosa come 33 milioni.
Simile la situazione per la Juventus che nel bilancio al 30 giugno dovrebbe avere entrate nuovamente superiore ai 400 milioni, mentre nelle sole due settimane in Nord America ha incassato qualcosa come 27 milioni. Il tutto senza dimenticare che i club di leghe minori hanno portato a casa in sole tre partite negli Stati Uniti cifre assolutamente fuori scala nei loro campionati di casa. È il caso per esempio dell’Auckland City che, pur ottenendo un solo punto nel Mondiale, ha intascato otto volte il proprio fatturato annuale oppure anche delle squadre argentine come Boca Juniors e River Plate. Non a caso sommando tutti i premi ottenuti dalle 32 squadre partecipanti si giunge alla cifra astronomica di un miliardo di premi e questa testata ha stimato per ognuna di esse quanto incamerato nello specifico.
È evidente che dinnanzi a certi numeri si comprende benissimo perché, come svelato dal Guardian, le grandi escluse di questa prima edizione stiano spingendo per avere nuove norme che tengano conto in maniera maggiore del merito storico dei club.
Nel contempo, visto che il montepremi aumenta sensibilmente più si va avanti nel torneo, si capisce anche perché i club non abbiano esitato a schierare al Mondiale i loro giocatori migliori anche se in piena estate e con il pericolo infortuni sempre presente (un esempio su tutti quanto avvenuto a Musiala). E questo nonostante gli stadi mezzi vuoti anche a causa della scelta della FIFA di programmare molte partite nel pomeriggio americano (spesso in giorni feriali) per favorire la visione serale nel mercato calcistico più importante, cioè quello europeo.
D’altro canto però è palese che questo nuovo torneo potrà durare ed eventualmente consolidarsi solo se potrà permettersi di continuare a elargire premi così elevati. E in questo quadro bisognerà vedere se gli sponsor, soprattutto quelli mediorientali, continueranno a spingere l’iniziativa di Infantino. Perché non si può nascondere che nei mesi scorsi il Mondiale per Club abbia trovato la propria linfa vitale solo quando DAZN ha messo sul piatto 1 miliardo di dollari per acquisire i diritti tv del torneo a livello mondiale. Ma questa mossa è stata poi seguita dall’ingresso nel capitale dell’emittente via streaming dell’imprenditore statunitense Lev Blavatnik da parte del fondo sovrano saudita PIF proprio per la stessa cifra, ovverosia 1 miliardo di dollari.
Non solo, ma sono asiatici e statunitensi anche i principali partner della manifestazione, visto che tra questi figurano lo stesso PIF, Aramco e Qatar Airways sul lato arabo, Lenovo e Hisense su quello cinese e Visa, Bank of America, Budweiser, Coca Cola e The Home Depot su quello nordamericano. Invece poco o nulla, a parte il contributo del colosso delle scommesse Betano (di proprietà della greca Kaizen Gaming) e della partnership consolidata con Adidas, è arrivato da società industriali europee.
Insomma a voler vedere la manifestazione sotto la lente della geopolitica del pallone, come già segnalato in altri appuntamenti di questo spazio editoriale, è evidente che il Mondiale per Club sembra essere stato un notevole passo avanti nelle gerarchie della FIFA da parte soprattutto di stakeholder arabi e asiatici e in seconda istanza da parte di quelli americani che probabilmente (il presidente Donald Trump in primis) hanno visto la kermesse come una prova generale per l’anno prossimo, quando in Nord America sarà organizzato il Mondiale 2026 per squadre nazionali. L’Europa e le sue multinazionali invece sembra esserne stata un po’ in disparte, probabilmente perché più concentrata sulle manifestazioni UEFA.
Oltre alle questioni economiche però il Mondiale per Club ha anche dato indicazioni importanti per quanto concerne la struttura dell’organizzazione del calcio a livello globale.
Una prima evidenza è stata che non c’è stato il tanto paventato dominio delle compagini europee su quello degli altri continenti. È vero che la finale di domenica sera vedrà contrapposti un club francese a uno inglese ma non c’è stata una Waterloo delle squadre non europee, soprattutto per merito dei club brasiliani e dei sauditi dell’Al Hilal del nuovo allenatore Simone Inzaghi.
Nello specifico una delle cause di questo livellamento è stata la stanchezza evidenziata dalla stragrande maggioranza dei giocatori impegnati in Europa, reduci da una stagione logorante. Inter, Juventus, Atletico Madrid e Porto sono apparse le squadre in maggiore difficoltà fisiche, però in generale tutte le formazioni del nostro continente (incluso il Chelsea finalista) non sono sembrate al massimo della forma.
L’unica eccezione è parsa il PSG di Luis Enrique, fresco campione d’Europa, che per stessa ammissione di Achraf Hakimi «è ora in un gradissimo stato di forma fisica». Ed è un’eccezione che spinge a più di una riflessione sull’organizzazione dei vari campionati europei.
In particolare analizzando l’annata dei parigini si evince che, a parte i tornei nazionali dove però c’è un divario tecnico ed economico con gli avversari da non avere soverchi problemi, la stagione internazionale del PSG era iniziata non bene. Anzi era partita talmente male che la squadra in Champions League si è qualificata per la fase degli scontri diretti solo come 15esima classificata nella graduatoria a girone unico. Inoltre in gennaio, nella penultima giornata della prima fase dovette affrontare una sorta di spareggio per evitare l’eliminazione contro il Manchester City. Spareggio peraltro vinto per 4-2 con ampissimo merito.
Di lì in poi però il PSG è stato protagonista di una cavalcata trionfale in Europa e nel mondo:
Non solo, ma una volta portati a casa anche il campionato e la coppa nazionale, gli uomini di Luis Enrique hanno proseguito la loro corsa al Mondiale per club dove:
Nei fatti al Mondiale hanno segnato 16 gol subendo solo quello contro il Botafogo.
Ora è possibile che grazie all’arrivo di Khvicha Kvaratskhelia nel mercato invernale Luis Enrique abbia trovato la quadra a livello tecnico, ma, come sottolineato dai media francesi, è anche probabile che proprio grazie al divario con gli avversari in campo nazionale e grazie anche alla nuova formula della Champions League che qualifica alla fase del knock out 24 formazioni su 36, l’allenatore parigino abbia calibrato la preparazione per essere al meglio nella seconda parte della stagione.
Tanto nessun club in Europa ha la certezza del PSG di centrare sempre l’obiettivo della qualificazione in Champions League per la successiva stagione. Per dare un’idea: il club della capitale non solo ha vinto in Francia 11 campionati negli ultimi 13 anni ma anche quando gli è andata male non ha mai terminato oltre il secondo posto. E dato che Oltralpe la qualificazione è automatica se si giunge nelle prime tre posizioni il Paris non manca di partecipare alla maggiore competizione europea dal 2012/13.
È un vantaggio che nessun club ha in Inghilterra nella supercompetitiva Premier League, né in Spagna e in Italia dove la lotta per il titolo e la qualificazione Champions è sempre incandescente e che non ha nemmeno il Bayern Monaco in Germania dove di solito esistono rivali nazionali più competitivi. Non a caso se è vero che negli ultimi anni il dominio Bayern nel campionato tedesco somiglia da vicino a quello del PSG in Francia, è anche vero che il Borussia Dortmund è stata capace di issarsi sino alla finale di Champions League nel 2013 e nel 2024, cosa che non capita a una squadra francese che non sia il PSG dal 2003/04 quando il Monaco venne sconfitto nell’ultimo atto dal Porto di José Mourinho.
D’altronde non sorprende che se i diritti interni della Bundesliga sono stati venduti per circa 1 miliardo l’anno, quelli della Ligue 1 non hanno trovato compratore dopo la decisione di DAZN di rescindere il contratto precedente e ora la Lega francese sta lanciando per necessità la sua propria piattaforma televisiva.
Insomma se nelle stagioni scorse essere parte di un campionato “non allenante” (per usare la celebre definizione di Fabio Capello) sembrava essere un handicap per un grande club da ambizioni europee, nel calcio di oggi, con i calendari sempre più intasati e con pochissime pause, la possibilità di “riposarsi nel campionato di pertinenza” sembra essere diventata un vantaggio per competere al meglio e trovare gloria nei tornei internazionali. A patto però di avere, come il PSG con quella qatariota, proprietà senza limiti di spesa che permettono al determinato club di acquistare top player e pagare stipendi fuori scala nei confronti dei rivali e se confrontati con gli incassi da diritti tv del campionato nazionale.