Facchetti su Calciopoli: «Non ha sfiorato mio padre. Ho rivissuto la sua solitudine» | OneFootball

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Inter News 24

·27 July 2025

Facchetti su Calciopoli: «Non ha sfiorato mio padre. Ho rivissuto la sua solitudine»

Article image:Facchetti su Calciopoli: «Non ha sfiorato mio padre. Ho rivissuto la sua solitudine»

Gianfelice Facchetti, attore e figlio dell’indimenticato capitano dell’Inter Giacinto, ha parlato del tema Calciopoli a La Repubblica

Gianfelice Facchetti, attore e figlio dell’indimenticato capitano dell’Inter Giacinto Facchetti, si è raccontato in una lunga intervista a La Repubblica, toccando anche il delicato tema di Calciopoli, la bufera giudiziaria che nel 2006 ha scosso il calcio italiano.

Nel corso dell’intervista, Facchetti ha rivelato il peso emotivo vissuto nel rivestire pubblicamente il ruolo del padre durante il processo sportivo: «In gergo nostro si parla di svuotamento: l’attore mette a tacere la propria personalità e si immedesima in quella del personaggio. E io rivissi le sue sensazioni, in primis la solitudine». Una dichiarazione intensa, che getta luce su un momento di grande fragilità.


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Secondo Gianfelice, uno degli aspetti più dolorosi è stato il silenzio generale: «Non c’erano testimoni, nessuno parlava, nessuno andava in aula», ha affermato. Solo in seguito, grazie al ritrovamento di appunti scritti di pugno dal padre, ha potuto offrire la propria testimonianza come testimone de relato, raccontando ciò che aveva vissuto attraverso gli occhi del genitore.

Calciopoli, scandalo che coinvolse dirigenti, arbitri e società calcistiche, non ha però toccato direttamente la figura di Giacinto Facchetti. «Per fortuna non ha neppure sfiorato papà», ha detto con sollievo Gianfelice, sottolineando come, nonostante l’ombra gettata su tutto il sistema calcistico, l’integrità morale del padre sia rimasta intatta.

Facchetti ha anche parlato del proprio percorso personale e professionale, lontano dal cognome ingombrante: «Mi aveva dato piacere affrancarmi dall’eredità paterna», ha raccontato. «Già dopo i 20 anni — quando vivevo in via Rubens — lavoravo nei bar e frequentavo la scuola Quelli di Grock. Lì ero un perfetto sconosciuto, non il figlio di».

Un racconto autentico, tra memoria, teatro e verità, che restituisce un ritratto intimo e profondo del legame tra padre e figlio, oltre la leggenda sportiva.

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