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·15 July 2025
Graziano Bini: «L’Inter, la mia vita. Herrera mi prese, Bersellini ci massacrò… E quei due marziani…»

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Una vita in nerazzurro, dall’esordio a 17 anni fino alla fascia da capitano. Graziano “Bino” Bini è un pezzo di storia dell’Inter, un “libero” elegante e roccioso che ha incarnato lo spirito del club per quattordici stagioni. Scelto da Helenio Herrera in un provino sotto la pioggia e diventato un pilastro della squadra che, con Eugenio Bersellini, vinse lo scudetto del 1980. Oggi, lontano dai campi, si racconta in una lunga e affettuosa intervista a La Gazzetta dello Sport, ripercorrendo una carriera ricca di aneddoti, compagni meravigliosi e un amore incondizionato per i colori nerazzurri.
LA CARRIERA – «Insomma, dai, ho fatto la mia parte. Ho sempre spinto e tirato la carretta, ho cominciato presto. A 17anni l’esordio in Serie A con l’Inter, allenatore Invernizzi. A 21 anni mi sono sposato. E poi ho lavorato tanto nel calcio, ma mi piaceva molto, non ho mai sentito la fatica».
GLI INIZI DA PANETTIERE – «Poco. Il panettiere nel forno di mio nonno a San Daniele. D’estate consegnavo le rosette e le michette, in bicicletta. Ma poi andavamo nella nostra cascina dove c’era un grande cortile, un’aia enorme e un muro, giocavamo contro il muro. Sempre, dalla mattina alla sera. Poi anche l’oratorio. E a 13 anni sono andato all’Inter».
IL RADUNO – «Un rappresentante che portava la farina al nostro negozio mi ha visto palleggiare e ha detto a mio padre: “Io conosco bene Ottavio Bugatti, il grande portiere, adesso fa l’allenatore delle giovanili. Se vuoi facciamo fare un provino al ragazzo”. Papà era scettico, ma siamo andati a un raduno a San Pellegrino»
IL PROVINO CON HERRERA – «Ho fatto un provino difficile, contro la squadra De Martino, c’era Mauro Bellugi, sotto una pioggia pazzesca, ho toccato sì e no due palloni. Mio padre mi ha preso per mano e ha detto: “Via via, andiamo via”. Un dirigente ci ha fermati: “Ma dove andate? Vede quel signore là in piedi, con l’impermeabile giallo? Quello è Helenio Herrera e ha detto: ‘Prendiamo quel ragazzo alto della difesa’”. Era il 1968. Sono diventato interista».
UNA VITA IN NERAZZURRO – «Una bella, calda vita. Tante partite, qualche gol di testa, compagni meravigliosi. Veramente. C’è stato un momento in cui in prima squadra giocavamo in otto, tutti cresciuti nelle giovanili: io, Bordon, Oriali, Canuti, Baresi, Ambu, Muraro e Pancheri. Più Occhipinti che ha fatto l’ultima partita dello scudetto. Eravamo amici, fratelli, ci si voleva bene».
IL “SERGENTE” BERSELLINI – «Bravissimo, grande educatore, duro, poche parole, ma chiaro e onesto. Non guardava in faccia a nessuno. Lavoro, rapidi e via. Anche a tavola: non si doveva perdere tempo e si mangiava in fretta. Dieci minuti e basta. Lui dopo ogni portata mangiava una mela. Ci ha insegnato molto, ma ci ha massacrato… Aveva la mania dei ritiri. Eravamo sempre ad Appiano. Domenica giocavi in campionato e, se c’era la coppa, subito in ritiro. Tutti i giorni, anche il venerdì. E allora i miei compagni mi hanno incaricato di andare da lui e parlare. Cercare, insomma, di convincerlo a lasciarci a casa almeno un giorno, il venerdì. Eravamo giovani, fidanzati, sposati da poco. “Provaci tu, Bino, magari ti ascolta”».
LA TRATTATIVA SUI RITIRI – «Sì, una sera sono salito nella sua stanza-ufficio. Ho bussato, un “avanti” gentile. “Mister, dovrei parlarle di una cosa”. E lui: “Sì, Bino, ti ascolto, chiedimi pure quello che vuoi, ma non parlarmi del ritiro. Capito?”. Già, capito».
LO SCUDETTO DEL 1980 – «Un grande scudetto, in testa dall’inizio alla fine. Potevamo vincerlo anche l’anno dopo, ma siamo arri vati stanchi e stressati. Ricordo una pazza partita a San Siro contro il Catanzaro. In vantaggio di due gol ci siamo fatti raggiungere. E altre sconfitte di misura».
LA PAZZA INTER – «Alti e bassi, è la storia. Ma una gran bella storia, come la mia. Ho giocato, vinto, ho sofferto, mi sono divertito».
LA NAZIONALE MANCATA – «Molto semplice. Avevo davanti due, come si diceva una volta, extraterrestri. Prima Scirea e poi Franco Baresi. E io ero in mezzo. Loro erano giganti, mostruosamente bravi. E io ero lì, chiuso, contento di stare in mezzo. Che cosa dovevo fare? Ho giocato qualcosina nelle Under, roba minima. Ero libero di… sognare».
I SOGNI REALIZZATI – «Di fare il titolare nell’Inter. Ci sono riuscito. Di giocare con Burgnich e Facchetti, due monumenti. E ci sono riuscito. Mi hanno insegnato molto. In Coppa dei Campioni, nel 1981, a San Siro ho segnato un gol al Real Madrid. Abbiamo vinto 1-0, ma non è bastato per arrivare in finale».
I TANTI INFORTUNI – «In un certo senso. Nel 1984 ho avuto anche il “piede freddo”. Un avversario mi ha toccato una vena con il tacchetto, si è fatta una crosta e il sangue non passava. Mi hanno operato e, dopo 345 partite ufficiali e 13 gol, è finita la mia carriera all’Inter».
IL “PIEDE FREDDO” COME MEAZZA – «Non lo so, ma solo l’accostamento all’immenso Pepin fa venire i brividi. Un mito. Lui era l’Inter»