Calcio e Finanza
·5 July 2025
Nessun obbligo di vincere: perché ora i fondi stranieri investono nei club italiani medio-bassi

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·5 July 2025
Il passaggio del Monza dalla Fininvest dei Berlusconi agli americani del fondo Beckett Layne Ventures non fa che acuire una tendenza sempre più evidente: nella stagione 2025/26 circa la metà della 40 squadre che giocheranno tra Serie A e in Serie B saranno controllate da fondi di investimento o da proprietà straniere, che quand’anche sono dinastie familiari non possono dirsi certo tifose di quella squadra da sempre. Palesando quindi un trend sempre più marcato verso il calcio business.
Nello specifico per quanto concerne la categoria maggiore, dopo l’acquisizione dell’Hellas Verona da parte degli statunitensi di Presidio Investors (e mentre non sembra sbloccarsi il passaggio dell’Udinese dai Pozzo) sono 11 i club posseduti da fondi o magnati venuti dall’estero, ovvero la maggioranza assoluta:
La Juventus, per quanto controllata da Exor che ha sede nei Paesi Bassi, non è stata inclusa in questo elenco perché il suo socio ultimo di maggioranza è la Dicembre dei tre fratelli John, Lapo e Ginevra Elkann che ha sede a Torino. Questa ha nella catena di controllo dell’impero industriale che fu dell’Avvocato la maggioranza relativa della Giovanni Agnelli BV (la cassaforte olandese della dinastia Agnelli-Elkann) che a sua volta detiene la maggioranza assoluta di Exor che poi detiene il 65% della Juventus.
Allargando gli orizzonti però la cosa più intrigante è che anche in Serie B ormai quasi la metà dei club (8 su 20) afferisce a proprietà straniere o a fondi di investimento:
Insomma, tenendo presente che anche laddove ci sono famiglie proprietarie straniere e non fondi (come nei casi di Roma, Bologna o Fiorentina), queste hanno messo soldi non perché tifose di quella squadra bensì in una logica di investimento, si può concludere quindi che metà del nostro calcio d’élite è in mano a persone che hanno acquistato club per fare del business. Poi, che per una sorta di paradosso, tra quelli che hanno fatto probabilmente meglio in termini di bilanciamento tra lato economico e quello sportivo vi sia un alfiere del cosiddetto modo tradizionale come Aurelio de Laurentiis (che però ha idee gestionali molto moderne) è una ulteriore conferma che non esistono regole definite e modelli vincenti a priori nello sport.
Approfondendo lo sguardo ancora di più si nota inoltre che nel calcio italiano degli ultimi cinque anni i passaggi di proprietà sono avvenuti nelle fascia medio-bassa della Serie A e in Serie B.
In particolare visto che vi sono stati solo due passaggi di proprietà di grandi club:
E questo è per altro un dato in netto calo nei confronti del decennio 2010-2020 quando erano stati numerosi i passaggi di proprietà tra i big club. Basti pensare:
Nel contempo invece tornando ad analizzare gli ultimi cinque anni sono avvenute 12 operazioni di acquisizione di club di media levatura tra Serie A e Serie B (prendendo in considerazione solo i club che, nell’anno del passaggio di proprietà, erano in Serie A o Serie B):
*L’Atalanta è stata inclusa in questo elenco, nonostante i recenti successi, considerando la storia del club.
Una tendenza, quella della differenza tra acquisizioni di grandi club e di medio-piccoli, talmente netta che non si può pensare che sia soltanto la conseguenza del fatto che il numero di club da acquistare è per forza più elevato nella fascia medio-bassa che non in quella alta.
È evidente che uno dei motivi di tale differenza sia la valutazione dei club e quindi il prezzo di acquisizione. Anche nel mondo apparentemente dorato della finanza internazionale è naturale che vi siano più fondi o imprenditori disposti a investire milioni che non i miliardi cui vengono valutati i nostri maggiori club.
E in questo senso è da notare come sempre più società di Serie B finiscano nel mirino dei fondi o di investitori stranieri. Questo perché un club nella cadetteria costa molto meno di uno nella serie maggiore visti i minori incassi da diritti tv nella seconda seria. Basti pensare alla cessione del Monza di questi giorni, passato di mano con una valutazione di circa 45 milioni, ovvero meno della metà del fatturato 2024 proprio a causa della retrocessione in Serie B e i mancati prossimi incassi televisivi.
Oltre a questo però c’è un altro elemento: gli investitori, in particolare quelli americani, hanno imparato che in Europa esistono promozioni e retrocessioni e talvolta è consigliabile spendere molto meno e puntare su un club di Serie B e quindi sulla sua speranza di promozione che non su una società in A e vivere con l’incubo della retrocessione. È vero che poi esiste il paracadute per chi scende nella cadetteria dalla serie maggiore, ma questo dura una sola stagione e poi non è mai semplice tornare in Serie A immediatamente. Con casi simbolo in tal senso come Salernitana (che ha fatto il doppio salto fino in Serie C in pochi anni) e della Sampdoria.
Non solo, ma investire su un club della seconda serie ha ancora maggiore senso se questo si trova in una città nota in tutto il mondo, ha una discreta storia calcistica, una tifoseria appassionata e un buon tessuto imprenditoriale nel territorio. Sono gli ingredienti dell’investimento, sinora di notevole successo, di Knaster nel Pisa come ha spiegato a questa testata dal presidente nerazzurro Giuseppe Corrado in un precedente appuntamento di questo spazio editoriale e nell’intervista video pubblicata sul canale Youtube di Calcio e Finanza.
Questo detto non è soltanto il prezzo di acquisizione il motore di questa tendenza. Ai fondi e agli investitori importa soprattutto guadagnare e quindi uscire dall’investimento, dopo un periodo tra i cinque e i sette anni, con laute plusvalenze.
In questo quadro se alcune volte è l’elevato prezzo di acquisizione a impedire la vendita di un grande club, non si deve nascondere che vi è un altro elemento che spaventa chi deve investire in una società blasonata: ovvero la necessità di vincere.
Nello specifico: se la storia o il blasone di una società non obbliga i proprietari al bisogno assoluto di portare a casa trofei, il lavoro degli investitori è molto più semplice e il calcio dei fondi funziona tendenzialmente. Per rimanere nel limbo della Serie A spesse volte è sufficiente vendere i giocatori più chiesti dal mercato per incassare plusvalenze con le quali comprare nuovi giovani di cui almeno uno potrà fare segnare una nuova plusvalenza. Per altro in un settore in cui i prezzi di acquisizione dei giocatori sono in crescita da tempo e con mercati di sbocco con grandi capacità di spesa quali quello della Premier League o dell’Arabia Saudita che pagano cifre fuori scala per lz media del calcio italiano, non è nemmeno impensabile che il valore del club nel medio termine aumenti e quindi l’eventuale cessione della società porti a una lauta plusvalenza per gli investitori. In fondo l’importante in termini sportivi è solo quello di evitare la discesa in Serie B, con i mancati introiti televisivi e da stadio di cui sopra, ed è di qui che scaturisce la totale avversione dei club di media levatura verso l’abbassamento della Serie A da 20 a 18 squadre.
Il gioco invece diventa terribilmente più complicato quando alla dinamica economica si affianca la necessità di vincere, tipica dei grandi club. Questo bisogno spesso impone scelte magari non razionali da un punto di vista del mero bilancio, obbliga a trattenere i campioni più importanti anche dinnanzi a offerte sostanziose per creare un nucleo che possa durare nel tempo. E tutto questo con lo svantaggio che nessuno ha la ragionevole certezza di ottenere l’obiettivo sperato. Perché se tanti a inizio stagione partono per vincere qualcosa, alla fine solo pochi se non pochissimi alzano un trofeo.
È evidente che in questo secondo quadro il peso maggiore, almeno per quanto concerne tra i fondi impegnati in Italia, lo devono sopportare quelle società di investimento proprietarie dei club più blasonati: ovvero Oaktree per l’Inter e RedBird per il Milan. Con la differenza però che la società californiana ha ottenuto il controllo dei nerazzurri a prezzo di saldo (praticamente i 275 milioni del prestito non rimborsato da Suning più altri 52 versati nelle casse del club finora) mentre Cardinale ha pagato i rossoneri a prezzo pieno, ovverosia 1,16 miliardi tra equity (600 milioni) e vendor loan (560 milioni). E questo necessariamente pesa e peserà nelle strategie di uscita dall’investimento.
Poi entrambe le proprietà milanesi si augurano che il nuovo impianto di San Siro porti con sé i benefici economici sperati di cui in questa sede e su tutti gli organi di stampa si è parlato tante volte. Anche se, come anticipato in questo spazio editoriale qualche settimana orsono (e confermato da altri organi di stampa nelle giornate successive) gli ostacoli su questo tema sembrano non finire mai aprendo la strada verso i mille meandri della politica cittadina e nazionale.
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