Calcionews24
·9 de octubre de 2025
De Zerbi: «Il calcio è un lavoro pesante, ma non è vero che io alleni per me stesso! Marsiglia, Milan, Gasperini, la Serie A: ecco cosa penso»

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·9 de octubre de 2025
Il Corriere della Sera oggi propone una lunga intervista a Roberto De Zerbi, l’allenatore che sta incantando l’Europa con il suo calcio propositivo e rivoluzionario. Dopo aver lasciato un’impronta indelebile con il suo Brighton in Premier League, l’ex tecnico del Sassuolo ha accettato la sfida del Marsiglia, una delle piazze più calde e appassionate di Francia.
LA TENSIONE EMOTIVA – «Mi ha tolto e dato. Mi nutrivo di quella motivazione: è stata un motore ma anche un freno perché quando sono riuscito a sistemare la mia famiglia ho avuto un down motivazionale. Ma quel modo di vedere il lavoro mi è rimasto dentro, come una spinta».IL RAPPORTO CON I GIOCATORI – «Ho fatto gli ultimi anni di carriera in Romania, lontano dalla famiglia. Poi ho iniziato ad allenare e mi sono perso l’infanzia e l’adolescenza dei miei figli. Con i giocatori e lo staff cerco un rapporto: se oltre a rispetto e stima c’è anche l’affetto è un mix esplosivo. Cerco una connessione, anche con l’ambiente».FA CORRERE I GIOCATORI ALLE 5 DI MATTINA PER SUPERARE LA PAURA DEL VELODROME – «Probabilmente è stata la cosa più bella che ho fatto, quella più vicina a me come persona: ho ascoltato e compreso il malessere dei ragazzi, che in casa non riuscivano a rendere. Ho fatto qualcosa di forte, per farli conoscere tra di loro. E poi ho fatto tre riunioni: in una tiravamo fuori i sentimenti negativi che avevamo al Velodrome; il giorno dopo ogni giocatore ha raccontato i valori in cui si identifica, li abbiamo scritti e appesi; poi abbiamo mostrato un video sui tifosi al Velodrome, per far loro capire chi hanno davanti».IL MILAN – «Il settore giovanile del Milan era una scuola. Maldini, Baresi, Tassotti e tutti quei grandi giocatori mi hanno insegnato l’etica nel calcio, il valore dell’allenamento, il fatto di allenarti più forte dopo una vittoria, il rispetto dentro a un gruppo, a partire dagli orari. Io mi sento un figlio di Milanello, del Milan, quello vero»DICONO CHE ALLENI PER SE STESSO – «L’ho già dimostrato tante volte che non alleno per me stesso, anzi. Amo i giocatori forti e li voglio. E credo che il calciatore conti più dell’allenatore per i risultati. Ero un numero 10: non potrei mai togliere valore al calciatore».HA LIMATO IL DIFETTO NEI RAPPORTI COL CLUB – «Non lo so. Credo di non investire tanto tempo nel rapporto con i dirigenti. Ma a Marsiglia con il presidente Longoria e il direttore Benatia ho costruito forse il rapporto più bello di sempre».IL RAPPORTO CON I TALENTI DIFFICILI – «Di solito hanno una sensibilità spiccata. L’allenatore deve aiutarli e capirli, ma il primo passo deve farlo il giocatore. Il mio rimpianto più grosso è l’uruguaiano Schiappacasse, al Sassuolo. Non sono riuscito a tirargli fuori niente, poi ho saputo dell’arresto per detenzione di arma da fuoco».IL CALCIO É UN LAVORO PESANTE – «Io nel calcio non devo starci per forza. Ma ci voglio stare a modo mio, ad esempio riuscendo a tirare sempre fuori le qualità dei giocatori».SI DA’ TROPPO PESO AGLI ALLENATORI – «Sì. Però allora quando va male non deve essere solo colpa nostra. In area, il d.s e il presidente contano più dell’allenatore. Poi è chiaro che il tecnico deve racchiudere tante caratteristiche, di 7-8 lavoratori. E un grande allenatore deve essere altruista, generoso».AVEVA MAI VISTO UNA RISSA COME QUELLA TRA RABIOT E ROWE – «Mai. E io vengo dalla strada. Ma ci ha fatto bene, perché la società ha scelto di fare a meno di Rabiot, che non ha voluto fare un passo indietro».LA SERIE A – «Sono contento per Gasperini, che all’Inter pagò colpe non sue: un po’ tifo per lui, perché gli avevano dato l’etichetta che non poteva sedersi su una grande panchina. E invece può stare ovunque. Il Napoli è più che vivo, l’Inter è forse ancora la più forte, il Milan sta giocando bene. È bello vedere tanta competitività»A CHI DEVE DIRE GRAZIE – «A tante persone. Da mio padre che mi ha portato allo stadio, a mia mamma laureata in Lettere che mi ha obbligato a studiare. Poi il Milan. E da allenatore, tutti i miei giocatori, perché attraverso di loro viene fuori il mio pensiero. Il succo del nostro lavoro è questo»