Norme, multe a utenti e big tech: la pirateria tema sempre più caldo nello scontro tra leghe, tv e colossi del web | OneFootball

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·1 mars 2025

Norme, multe a utenti e big tech: la pirateria tema sempre più caldo nello scontro tra leghe, tv e colossi del web

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«La Lega Serie A ogni anno subisce un danno di oltre 300 milioni a causa della pirateria televisiva. Per questo siamo stati i primi a mettere in campo azioni come la piattaforma Piracy Shield che permette il blocco in pochi minuti dei siti pirata. Ora però, oltre a perseguire chiunque sfrutti il prodotto calcio per trarne profitti illegali dobbiamo pretendere che le autorità inizino a multare le migliaia di privati cittadini rei di utilizzare i servizi di streaming illegale». Non più tardi di qualche giorno fa l’amministratore delegato della Lega Serie A Luigi De Siervo è tornato alla carica nella battaglia contro la pirateria televisiva domandando alle autorità un ulteriore salto di qualità: quello appunto di multare i privati cittadini utilizzatori di servizi di streaming illegale.

Considerata non a torto uno dei grandi mali del calcio mondiale, la pirateria televisiva sta concentrando su di sé l’ira non solo di numerosi gestori dei grandi tornei come De Siervo o il presidente della Liga, Javier Tebas, ma anche di politici e ministri visto che, secondo la FAPAV (la Federazione per la Tutela delle Industrie dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali) la pirateria causa danni per circa 2 miliardi di euro all’economia italiana.


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Il tema è oggi più scottante che mai tanto che ormai ci sono sempre più addetti ai lavori che si scagliano apertamente contro i grandi colossi del web quali Google o Cloudflare, colpevoli a loro dire di un certo lassismo in questa battaglia industriale e legale.

LE MOSSE DI TEBAS CONTRO I COLOSSI DEL WEB

In questo quadro, come spesso capita, il primo a non averle mandate a dire è Javier Tebas, il gran capo de LaLiga spagnola, che nei mesi scorsi ha prima elogiato la normativa italianaalmeno ne avessimo una così anche noi») e poi si è scagliato contro i colossi del web, non più a parole ma in tribunale: la Liga ha presentato un esposto all’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti accusando diverse aziende tech USA, tra i quali Cloudflare, Google e X di essere facilitatori per comportamenti illegali come la pirateria.

D’altronde le leghe e svariati broadcaster spesso si sono lamentati sottotraccia dei giganti del web, colpevoli di un comportamento da “gestore autostradale”: ovvero non ci si preoccupa se le auto circolanti siano rubate o no, l’importante è che paghino il pedaggio.

Questo evidenziato per capire meglio quanto questo scontro tra leghe e broadcaster da un lato e società hi tech dall’altro possa pesare sul mondo del calcio, è bene entrare nei particolari e spiegare lo stato dell’arte odierno e prossimo.

LA LOTTA ALLA PIRATERIA IN ITALIA: DOVE MIGLIORARE

Sino a pochi anni fa, gli strumenti per contrastare la pirateria erano soltanto basati sulle indagini delle forze dell’ordine che operavano su mandato delle procure. Attività dal grandissimo valore ancora oggi, che permettono di smantellare le centrali di emissione di contenuti pirata e le sofisticate reti gestite da associazioni a delinquere.

L’opera delle procure però agisce solo sul lato dell’offerta e l’attività di prevenzione, visto il numero di utenti pirata sempre notevole, non è parsa essere sufficiente per scoraggiare l’utilizzo di app e servizi pirata. In particolare, in ambito parlamentare è stato considerato necessario contrastare il fenomeno anche sul fronte della domanda, ostacolando cioè il consumo di contenuti pirati live da parte degli utenti.

In particolare, grazie alla legge n. 93/2023, è stato introdotto Piracy Shield, uno strumento legale con il quale poter bloccare i siti che diffondono contenuti pirata entro 30 minuti dalla segnalazione da parte dei titolari dei diritti. Al momento l’azione di questa piattaforma riguarda solo i contenuti sportivi, ma nel 2025 dovrebbe essere estesa anche ai film, serie tv e i programmi d’intrattenimento.

Quest’azione a tenaglia però, come ha ricordato anche il ministro Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, per essere efficace, deve coinvolgere tutti i soggetti operanti nel settore, chiamati, nessuno escluso, a fare la loro parte in questa lotta alla criminalità. «Il successo di questa piattaforma e dell’intero sistema dipende dalla collaborazione attiva e leale di tutti i soggetti coinvolti nella filiera», ha spiegato Urso puntando il mirino anche verso i colossi del web.

In questo quadro va sottolineato come Piracy Shield, introdotta nel febbraio 2024, è sorta da una legge di iniziativa parlamentare approvata a larghissima maggioranza con un voto bipartisan e che ha ricevuto il plauso delle principali associazioni e aziende impegnate nel contrasto alla pirateria. Il presidente della FAPAV Federico Bagnoli Rossi, per esempio, ha spiegato: «Il nuovo impianto normativo è un’innovazione che rappresenta un modello a livello europeo, perché coniuga l’attività di contrasto alla tempestività di azione». E per quanto concerne i broadcaster hanno avuto parole di plauso sia Stefano Azzi, ceo di DAZN Italia («È una tappa importante nella lotta a una forma di criminalità dannosa e pericolosa per i clienti stessi. Il provvedimento tutelerà il diritto d’autore a beneficio dell’intero movimento sportivo») sia Andrea Duilio, amministratore delegato di Sky Italia: «La pirateria è un fenomeno che danneggia l’industria creativa e sportiva, distruggendo migliaia di posti di lavoro».

D’altro lato però non sono però mancate anche le critiche. Queste sono giunte principalmente dagli ISP, gli operatori internet direttamente coinvolti nel meccanismo di blocco della piattaforma. In particolare, i provider hanno lamentato l’aumento dei costi necessari per garantire l’oscuramento dei siti pirata in tempo reale, anche se, a onor del vero, sin dall’avvio di Piracy Shield gli ISP hanno comunque fatto la loro parte garantendo il corretto funzionamento della piattaforma.

A livello tecnico invece va spiegato che la piattaforma, gestita dall’Agcom, blocca l’accesso quasi in tempo reale ai singoli indirizzi IP utilizzati e parte da una segnalazione del detentore dei diritti agli eventi diffusi illegalmente: attraverso la piattaforma, viene segnalato l’indirizzo IP su cui è in corso la violazione ed entro i 30 minuti successivi gli oltre 300 operatori di servizi internet accreditati hanno l’obbligo di rendere l’indirizzo irraggiungibile. In questo modo se in passato le operazioni di blocco erano poche migliaia ogni anno, la nuova piattaforma in una decina di mesi ha disabilitato più di 33mila tra indirizzi IP e FDQN (Fully qualified domain name).

L’IMPORTANZA DELLA COLLABORAZIONE DI TUTTI I PLAYER

È evidente però che per contrastare un fenomeno così diffuso, come si accennava prima, è necessario il contributo di tutti i soggetti coinvolti. E in questo senso un modo per migliorare il funzionamento della piattaforma sarebbe quello di sedersi al tavolo Agcom, un tavolo tecnico che riunisca tutti i player coinvolti nella lotta alla pirateria, visto che permetterebbe di collaborare con l’Autorità per l’estensione della “whitelist” dei siti da non oscurare, così da limitare ancora di più il rischio di eventuali errori.

Non a caso il ministro Urso, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare che verteva sulla mancata collaborazione di player come Google, ha affermato: «Il successo di questa piattaforma (Piracy Shield, ndr) e dell’intero sistema dipende dalla collaborazione attiva e leale di tutti i soggetti coinvolti nella filiera: dai fornitori di servizi internet agli intermediari online, fino ai titolari dei diritti, sotto la guida e il coordinamento dell’Agcom, che è centrale, in quanto ha la competenza per intervenire ogni qual volta vengano rilevate attività illecite. È quindi fondamentale che gli operatori iscritti alla piattaforma partecipino in maniera proattiva, ad esempio contribuendo all’inserimento nella “white list” dei servizi legittimi, per evitare che vengano erroneamente colpiti. La normativa vigente prevede, inoltre, che i provider e gli intermediari online si assumano specifici obblighi di vigilanza e segnalazione, chiedendo loro di comunicare immediatamente ogni indirizzo sospettato di ospitare contenuti illeciti».

La cosa da notare inoltre è che su oltre 33mila blocchi tra FQDN (Fully qualified domain name) e indirizzi IP nei primi 10 mesi di funzionamento di Piracy Shield, come spiegato dal presidente dell’Agcom Giacomo Lasorella, «sono pervenuti solo 2 reclami» e «i segnalatori hanno usufruito della possibilità di rimozione del blocco in tempi stretti, ponendo rimedio ai blocchi che hanno coinvolto per alcune ore risorse afferenti ai soggetti terzi». In pratica gli errori sono stati lo 0,006% del totale dei blocchi, un margine di errore inferiore a quello fisiologico. Una precisione per altro che a monte è garantita anche dalle verifiche preventive che effettua Agcom prima di accreditare i titolari dei diritti sulla piattaforma. In particolare, chi segnala è tenuto a raccogliere e conservare tutte le prove dell’illecito e i soggetti che operano attraverso la piattaforma sono ritenuti responsabili civilmente delle proprie azioni.

Insomma, chi sbaglia, provocando il blocco di un servizio legittimo, potrà quindi essere chiamato a risarcire il danno generato dal proprio errore. E in questa direzione va letta la diffida di Agcom nei confronti di DAZN in seguito all’errore che nell’ottobre dello scorso anno portò al blocco di Google Drive.

DECRETO OMNIBUS, COME SI È EVOLUTA LA NORMATIVA

Sulla base dei risultati raggiunti dalla piattaforma, il parlamento è intervenuto nuovamente nel 2024 introducendo importanti novità attraverso il Decreto Omnibus. Novità volte, tra l’altro, a responsabilizzare tutti i player coinvolti e prevedendo anche misure di natura penale.

Nel particolare le nuove misure danno facoltà all’Agcom di adottare provvedimenti cautelari verso quegli indirizzi IP “prevalentemente” utilizzati per attività illecite, allargando ai fornitori di VPN e DNS l’obbligo di disabilitare l’accesso ai contenuti pirata su richiesta dell’Agcom. Non solo ma dall’altro lato impongono a questa di prevedere un meccanismo di revoca dei provvedimenti, in caso di carenza dei requisiti di legge, fornendo quindi ulteriori garanzie ai soggetti coinvolti.

In questo quadro il particolare da non trascurare è che queste norme si applicano ora anche ai motori di ricerca, che dovranno deindicizzare le pagine che diffondono i servizi pirata dai propri portali, sempre entro 30 minuti dalla richiesta dell’Agcom.

Nei fatti, insomma, è resa più chiara la responsabilità dei diversi attori coinvolti: Internet Service Provider, motori di ricerca, fornitori di VPN e DNS sono tutti chiamati a segnalare le condotte penalmente rilevanti di cui sono a conoscenza all’autorità giudiziaria, fornendo tutte le informazioni disponibili. Con le nuove norme che sono motivate dal fatto che, nei primi mesi di funzionamento di Piracy Shield, stakeholder come i motori di ricerca e i fornitori di servizi VPN e DSN si sono mostrati reticenti a collaborare. Non a caso, alcuni operatori internazionali hanno contestato gli emendamenti al decreto Omnibus con argomentazioni spesso demagogiche o fuorvianti.

DISATTENZIONI, RETICENZE E CONFLITTI DI INTERESSE: L’ATTEGGIAMENTO DELLE BIG TECH

Nello specifico tra coloro i quali hanno manifestato critiche a seguito dell’introduzione di Piracy Shield e del decreto Omnibus c’è Google. Secondo il suo Head of Government Affairs and Public Policy in Italia, Diego Ciulli, le modifiche per esempio costringerebbero il motore di ricerca a segnalare 10 miliardi di URL all’Autorità Giudiziaria, con il rischio di bloccarne l’operatività.

L’obiezione però pare basata sul numero di violazioni raccolte da Google in tutto il mondo nel corso degli ultimi 12 anni, come ha puntualizzato Torrentfreak, una fonte vicina al mondo dei “pirati”. Inoltre visto che la nuova normativa non prevede l’invio all’Autorità Giudiziaria di tutte le violazioni del diritto d’autore, ma solo l’invio dei dati di chi è sospettato di aver commesso la violazione, significa che limitando le segnalazioni agli illeciti indicati dalla normativa (relativi al solo territorio italiano) ed escludendo le duplicazioni (l’autore di un illecito può reiterare la violazione più volte su indirizzi diversi), è realistico stimare che il numero di segnalazioni che Google Italia dovrebbe eseguire in un anno si aggirerebbe intorno a qualche decina di migliaia.

Si parla quindi di un dato inferiore all’1% di quanto dichiarato da Google. Peraltro, il colosso del web ha anche scelto di non aderire al tavolo tecnico Agcom su Piracy Shield, come evidenziato anche dal presidente Agcom Giacomo Lasorella nel corso della sua recente audizione alla Camera: «Abbiamo rivolto un richiamo a tutte le categorie di soggetti coinvolti dalla legge antipirateria perché provvedano ad accreditarsi alla piattaforma. L’adesione di questi soggetti, in gran parte situata all’estero, è indubbiamente problematica. Attualmente ci sono resistenze».

Google aveva già indirettamente replicato alle accuse di scarsa collaborazione tramite Diego Ciulli, il quale aveva rimarcato l’impegno del colosso statunitense nel contrasto alla pirateria. Questo anche, e soprattutto, in qualità di partner dei titolari dei diritti. In Italia, ad esempio, YouTube (piattaforma di proprietà di Google) ospita il canale di contenuti della Lega Serie A.

Interpellato da Calcio e Finanza sulla questione, un portavoce di Google ha dichiarato: «Semplifichiamo la procedura per richiedere la rimozione dei contenuti illegali, incluse le app, per utenti, titolari di diritti e autorità di regolamentazione come l’Agcom, e rimuoviamo rapidamente i contenuti in violazione una volta che ci vengono segnalati. Questo processo è fondamentale per combattere la pirateria e prevenire al contempo la censura involontaria di contenuti legali. I nostri strumenti sono già impiegati efficacemente da centinaia di migliaia di titolari dei diritti in tutto il mondo, che in questo modo possono gestire efficacemente i loro contenuti».

IL PROBLEMA DELLE APP

Secondo più osservatori, un altro problema legato alle big tech si manifesta nel loro mancato controllo sugli altri meccanismi che facilitano l’utilizzo dei servizi IPTV pirata. Pensiamo ad esempio alle app illegali facilmente scaricabili dagli store online o ai marketplace dove acquistare dispositivi predisposti alla visione pirata. Come ha dichiarato il Commissario Agcom Massimiliano Capitano, «tante app per la visione pirata sopravvivono sul Play Store di Google. E Google, eliminate le app illecite, dovrebbe anche disinstallarle dai telefonini delle persone. Perché, chiedo, non lo fa?».

Insomma, come spiegato anche da Capitanio, le app illegali, seppur rimosse dal Play Store, non vengono rimosse dai cellulari di chi le ha installate e quindi l’utente può continuare a vedere contenuti piratati indisturbato. E dalle app del Play Store, Google guadagna grazie alla pubblicità in esse presenti (Google Ads). Va comunque precisato che il Play store (quindi il tema applicazioni) non rientra nell’ambito di applicazione della legge su Piracy Shield.

In questo contesto, ovviamente, Google è solo un esempio. Altre big tech beneficiano di questo tipo di indotto. È il caso, ad esempio, di Meta: su Facebook Marketplace sono numerosi gli annunci di dispositivi già configurati per la visione illegale di contenuti, come le Fire Stick di Amazon dotate di sistemi pirata o anche già dotate di un abbonamento IPTV illecito. Si stima che la grande maggioranza di queste compravendite di questi particolari dispositivi passi attraverso Facebook Marketplace che trae guadagni da queste attività.

LA LOBBY DELLE BIG TECH E L’APPELLO ALL’EUROPA

Il 21 gennaio 2025 la CCIA Europe, un’associazione che rappresenta alcune tra le principali aziende del settore delle comunicazioni e della tecnologia (tra cui Google, Amazon, Meta, Cloudflare, Apple, Nord Security), ha diffuso una lettera aperta indirizzata ad alcuni funzionari della Commissione UE per contestare la normativa italiana anti-pirateria. Secondo questo documento, le leggi italiane sarebbero in contrasto con alcune norme europee come il Digital Service Act (DSA) e per questo l’associazione si appella alla Commissione Europea per convincere il Governo italiano a rivedere le leggi in vigore.

Nello specifico, viene attaccato Piracy Shield e la sua tempestività per cui viene richiesta «l’introduzione di protocolli di verifica più solidi e di migliorare significativamente la trasparenza, oltre a prevedere adeguati meccanismi di ricorso per gli utenti interessati». Inoltre, viene contestata anche la norma che introduce la responsabilità penale per la mancata segnalazione di attività illecite da parte di tutti i soggetti coinvolti: per la CCIA invece questo dovrebbe valere solo per i «provider di hosting e solo quando il contenuto rappresenta un rischio per la vita o la sicurezza di una persona».

Insomma, la battaglia è più viva che mai e se sino a ieri l’atteggiamento delle big tech era passivo, dopo la missiva di cui sopra della CCIA, lo scontro è ormai in campo aperto.

Qui sotto, sulla diffusione della pirateria in Italia, si menzionano alcuni numeri (dati FAPAV-IPSOS, 2023):

  • Il 39% degli adulti italiani, secondo i dati Ipsos, ha commesso nel 2023 almeno un atto di pirateria fruendo illecitamente di film, serie/fiction, programmi o sport live, per un totale di circa 319 milioni di atti di pirateria stimati.
  • Le IPTV illecite rappresentano una delle forme preferite da circa 11,8 milioni di italiani (23%) per accedere almeno una volta ai contenuti pirata, seguono lo streaming con il 18% e il download con il 15%.
  • La stima del danno economico potenziale per le industrie dei contenuti audiovisivi ammonta a circa 767 milioni di euro (+14% rispetto al 2021, anno dell’ultima rilevazione complessiva).
  • La ricerca FAPAV, stima inoltre una perdita di fatturato per l’economia italiana pari a circa 2 miliardi di euro a causa della pirateria, il che implica una perdita di PIL di circa 821 milioni di euro e una contrazione dei posti di lavoro pari a circa 11.200 unità.
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