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·12 octobre 2024
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Daniele Orsato Ăš intervenuto al Festival dello Sport di Trento. Lâex arbitro si Ăš raccontato nel corso dellâevento organizzato da La Gazzetta dello Sport, ripercorrendo la sua carriera e parlando del ruolo di direttore di gara. Di seguito le sue parole, riportate da gianlucadimarzio.com:
âIl campo mi manca. Mi mancano i miei compagni di squadra: non solo i miei assistenti ma mi manca la CAN, il mio gruppo. Mi manca la possibilitĂ di dare consigli a loro. Arrivato alla fine mi piaceva tanto farlo. Ma soprattutto mi manca il campo.â
âSoprattutto mi manca la designazione: Ăš il momento piĂč atteso. Quando la ricevi e scopri magari la categoria Ăš il momento piĂč bello, insieme con la telefonata del segretario. Mi manca la chiamata del mercoledĂŹ pomeriggioâ.
Ma quello che Ăš stato uno degli arbitri piĂč importanti del panorama italiano ha iniziato anche un poâ per caso: âIo volevo fare tutto tranne lâarbitro di calcio: a 10 anni giravo per casa con cacciavite e forbici perchĂ© volevo capire da dove venisse la luce. Andavo bene a scuola, volevano che facessi ragioneria, ma ero nato per fare lâelettricista. Ho fatto tre anni di questa scuola, poi il diploma e la chiamata dellâazienda. Mia mamma mi aveva fatto la borsetta in cuoio con le cuciture, andai in Vespa al primo giorno. Il mio sogno era quello, lo realizzai. La vita Ăš veramente strana: un collega mi chiede se giocassi a calcio, gli rispondo di sĂŹ. Mi disse: âVieni a fare lâarbitro di calcioâ. Gli dissi che secondo me lâarbitro Ăš uno sfigato. Lui mi rispose con una frase che anni dopo avrei sentito da Stefano Farina: âNon saprai mai cosa voglia dire fare lâarbitro se non lo hai mai fattoâ. Mi sfidava: e quella sera andai al corso dâarbitri, accettai la sfidaâ.
CosĂŹ Ăš iniziato il percorso che lâha portato in Serie A: âIo volevo andare a Vicenza, ma mio padre mi spedisce a Schio, a una ventina di chilometri. Il presidente ci spiegĂČ le procedure, chiesi al barista quanti anni ci volessero per arrivare in Serie A. Lui mi rispose ironicamente: âDevi ancora diventare arbitro e giĂ pensi alla Serie A?â. Tornai a casa e dissi a mia madre: âTra sedici anni vado in Serie Aâ. Lei si girĂČ dallâaltra parte e riprese a dormire. Allora lo dissi a mio fratello. Il 4 luglio del 2006 mi chiamĂČ Gigi Agnolin: ero promosso in Serie A, mi invitava a Sportilia. Mio fratello tirĂČ fuori un foglio: câera la data di 14 anni prima, e quella promessa. A dicembre 2006 esordii in Serie A. Era nato mio figlio grande da pochi mesi. Vidi mio padre entrare a Siena allo stadio, aveva lâaccredito ma era cosĂŹ emozionato che voleva pagare il bigliettoâ.
Un amore che dura anche dopo il ritiro: âAnche oggi continuo a girare nelle sezioni per trasmettere la passione. Non voglio che i giovani arbitrino âalla Orsatoâ. Ma devono avere la mia abnegazione. Cosa vuol dire arbitrare âalla Orsatoâ? Scommettere su sĂ© stesso, rischiare, sbagliare con la propria testa. Capire i propri limiti e quello in cui serve migliorare. Lâinsulto peggiore in campo? âSei scarsoâ. Ne ho ricevuti tantissimi in campo, negli anni, e anche ora ne ricevo. Quando sbagliavo io, allora passava il messaggio che gli arbitri italiani fossero scarsi. Lo ricordo sempre a Massa, Guida e Mariani. A me i calciatori non hanno mai detto âsei scarsoâ; se me lo avessero detto li avrei buttati fuoriâ.
Il complimento migliore invece Ăš stato un altro: âNella relazione del mio primo osservatore câera scritto: âHa passioneâ. Io non ho mai avuto invidia, e sono sempre stato fortunato, ho avuto grandi maestri a partire da Stefano Farina. Cosa guardo in un arbitro? Quanta passione si mette, quanto si corre, il rapporto coi calciatoriâ.
Orsato ha parlato anche del suo modo di arbitrare: âIn campo lâarbitro che decide deve prendersi la responsabilitĂ di quello che fa. Allâingresso in campo i ragazzini che ci accompagnano vogliono prendere il pallone in mano. Ma io ho questo rito: con me i bambini sono rimasti sempre a mani vuote. Il gesto Ăš un saluto alla mia famiglia: mi dicevano che non sorrido mai in campo, che sono troppo serio, diverso dalla vita di tutti i giorni. Mi dicevano che quando andavo al VAR avevo la faccia arrabbiata. Ă il gesto piĂč bello della mia vita. Alla mia squadra arbitrale ho sempre fatto sentire la mia playlist: dovevano avere i miei occhi. Un arbitro non puĂČ andare in campo senza conoscere le squadre: come difendono, quali sono i giocatori che fanno blocco sulle punizioni, la loro attitudine, e poi chi ha piĂč tendenza a cadere per terraâ.
Un modo di arbitrare che lo ha portato anche in Champions League e ai Mondiali: âQuando mi ha chiamato Rosetti per darmi la finale, scoppiai a piangere in camera mia. Mio figlio rientrĂČ in casa col cagnolino al guinzaglio e lo mollĂČ. Mi disse solo: âMa ti hanno dato la finale? Il Mondiale in Qatar Ăš stato il massimo della mia espressione arbitrale. Nella finale di Champions mi Ăš mancato il pubblico. Le maglie di Neymar e Lewandowski attorno alla mia: unâimmagine che non dimenticherĂČ mai.
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