Inter Milan
·28 avril 2025
Romanzo nobiliare: Inter e Barcellona, destini incrociati

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·28 avril 2025
Hanno cominciato a incontrarsi in Champions League nel terzo millennio, ma Inter e Barcellona sono due squadre profondamente connesse, le cui storie hanno cominciato a intrecciarsi nel secolo scorso, attraverso due palloni d’oro.
Nel 1961 trasferimento di Luisito Suarez, miglior giocatore europeo l’anno prima, consentì ai blaugrana di terminare la costruzione del Camp Nou, ferma da sette anni. Nel 1997 quando Massimo Moratti pagò la clausola di rescissione di Luis Nazario da Lima, soprannome uno Ronaldo, soprannome due il Fenomeno, i catalani non la presero benissimo, e l’Inter tornò al centro del villaggio calcistico globale.
Prima volta in cui si incrociano le spade in Champions League, 2002-2003. Prima, due doppi confronti in Coppa delle Fiere: 1959 e 1970. In quell’edizione della Champions League fu sufficiente una versione in tono minore del Barcellona, con al centro i due talenti argentini Saviola e Riquelme, che il meglio lo avrebbero però dato altrove, a fermare l’Inter di Cuper.
Netto 3-0 al Camp Nou il 18 febbraio, 0-0 prudente a San Siro otto giorni dopo. La Champions League aveva una formula inedita, quella del doppio girone con accesso diretto ai quarti. Che dissero bene alla squadra di Cuper, che passò un doppio confronto drammatico con il Valencia, meno bene a quella di Antic, che uscì con la Juventus.
Non c’è bisogno di raccontare la stagione 2009 2010 a un vero interista, che dell’anno santo del Triplete ricorda ogni dettaglio. Delle tredici partite giocate in Champions dall’Inter leggendaria, ben quattro furono incroci con il Barcellona. È utile però aggiungere un contesto e spiegare in che momento storico erano i due team. Il Barça arrivava da una delle più grandi intuizioni della sua storia. Frankie Rijkaard aveva aperto un ciclo, tornando a vincere dopo 14 anni la Champions League con un gioco armonico e spettacolare, figlio di talenti puri, Ronaldinho e Deco, e qualche buttafuori a proteggerli, Marquez e Van Bommel.
Il tutto con un tridente strano ma efficace: il miglior Ronaldinho mai visto, il francese Giuly, e Samuel Eto’o, centravanti sui generis: tecnico, instancabile, ubiquo. Ritornerà in questa storia. La finale di Parigi vinta sull’Arsenal del 2006 è il vertice di quella squadra che però è troppo incostante ad alti livelli. Nell’estate del 2008 arriva la giocata del presidente Laporta, che sostituisce il tecnico olandese con il trentasettenne allenatore della seconda squadra, il Barcelona B, che aveva appena vinto il proprio girone di terza divisione, la nostra serie C. Josep Guardiola, per tutti Pep.
Catalano fino al midollo, ha vinto la prima Champions da titolare nel 1992. In panchina c’era il suo maestro, Johan Crujiff, che gli ha insegnato due cose soprattutto. La prima: un giocatore lo si giudica da come riceve il pallone e da come lo restituisce. La seconda: le grandi squadre si costruiscono tanto aggiungendo quanto togliendo. Pep arriva al Barcellona e anziché aggiungere, toglie. Toglie Deco, il cui rendimento non era ai livelli delle stagioni precedenti. Toglie Ronaldinho, sempre delizioso ma un filo appesantito. Nelle sue intenzioni toglierebbe anche Samuel Eto’o, ma il camerunese si impunta e gli dice io rimango, ti farò vedere.
Dal mercato non arriva granché: Gerard Piqué, un difensore centrale ex cantera, torna alla base dal Mancheter United. I sostituti di Deco e Ronaldinho sono già in casa: si chiamano Andres Iniesta e Leo Messi, che però arriva da una stagione interlocutoria, 16 gol.
Il Manchester United nel 1999 aveva vinto Premier League, FA Cup e Champions League: Treble, titolarono i giornali inglesi. Il termine spagnolo sgorga naturale: Triplete. Il Barcellona di Guardiola vince Copa del Rey, Liga e Champions League. La finale è a Roma, proprio contro lo United, e ad aprire le marcature c’è un centravanti atipico, spostato in fascia destra in quell’occasione: Samuel Eto’o.
Centravanti gioca, e giocherà per i successivi quattro anni in quella che di fatto è una reinvenzione tattica – il falso nueve – Leo Messi, che di gol in quella stagione ne segna 38. Come rovinare una squadra perfetta? Cambiandola.
Il cambiamento è forzato: da Madrid - sponda Real - sotto la presidenza di Florentino Perez hanno un solo modo di rispondere alle vittorie altrui: con i botti di mercato. Bum: Xabi Alonso. Bum: Karim Benzema. Bum: Kakà. Bum: Cristiano Ronaldo. In Catalogna esigono risposte, e la scelta cade sul centravanti dell’Inter, che pubblicamente ha già strizzato l’occhio. “Il Barcellona gioca il calcio del futuro” ha detto in un’intervista di fine stagione Zlatan Ibrahimovic.
Ibra ha vinto tre scudetti con l’Inter: due con Roberto Mancini, uno con Josè Mourinho. Ha cambiato il suo gioco progressivamente: nel primo anno giocava quasi da numero dieci dietro a un centravanti classico come Crespo o Cruz. Non segna tantissimo in proporzione ai mezzi (quindici in stagione), ma è un rebus tattico irrisolvibile per gli avversari, che devono seguire dentro al campo un fantasista di un metro e novantasei per 95 kg di muscoli. Il secondo è anno è funestato da diversi problemi fisici, ma rientra al momento giusto: la mezz’ora di Parma all’ultima giornata, dove una sua doppietta regala all’Inter lo scudetto numero sedici, uno dei più gustosi.
Con l’arrivo dell’allenatore portoghese, Ibra diventa ancora più centrale nel progetto interista, formando con Maicon un duo di assi che in serie A non ha rivali per fisico, tecnica e potenza. Lo svedese diventa centrale anche in campo: da centravanti è in grado di battere uno contro uno qualunque marcatore con ogni mezzo tattico. È semplicemente fuori scala: 24 gol, capocannoniere, altro scudetto. In Europa però la musica è diversa, e l’Inter non trova la chiave. La prima Inter di Mou, complice un girone di Champions non proprio scintillante, si ferma agli ottavi contro il Manchester United.
La classe e la potenza di Maicon e Ibrahimovic non bastano, serve aggiungere qualità a centrocampo. La possibilità arriva e i vertici dirigenziali nerazzurri fanno propria l’intuizione che Guardiola ebbe dodici mesi prima: bisogna togliere per aggiungere. Da Barcellona nella scoppiettante estate del 2009 arriva una prima proposta: venti milioni più Eto’o per Ibrahimovic. L’Inter rilancia, trenta più Iniesta e possiamo parlarne. Silenzio all’altro capo del filo. Qualche settimana dopo la linea si riaccende: cinquanta l’assegno oltre al cartellino di Eto’o ha scritto sopra il prezzo giusto stavolta, l’affare si fa. Ibrahimovic, che qualche ora prima era sul palco di Los Angeles indossando la 10 nella serata di presentazione dei nuovi kit nerazzurri, vola a Barcellona, il percorso inverso lo fa Samuel Eto’o. Curriculum: due Champions vinte con due gol in finale.
E la qualità in mezzo? È arrivato Thiago Motta assieme a Milito dal Genoa, manca ancora qualcosa però. L’intuizione: il Real ha bisogno di vendere, e c’è un trequartista olandese a cui hanno appena tolto la numero dieci e minacciano di togliere l’armadietto. Wesley Sneijder arriva e completa il puzzle della nuova Inter. Diversa, meno dipendente dal centravanti, più armonica.
L’urna di Montecarlo è beffarda, e mette subito di fronte le due squadre, in un girone completato da Rubin Kazan e Dinamo Kiev. L’andata è anche la prima gara del gruppo G. Si gioca a San Siro, zero a zero in cui non succede granché. L’unica azione rilevante nerazzurra è firmata da Davide Santon, il cui assolo è fermato con le cattive da Yaya Tourè che si prende un giallo. Santon, diciotto anni, è stata un’intuizione del club, che ha dato il via libera a Maxwell, terzino sinistro brasiliano. Il club di destinazione? Indovinatelo.
Il resto del girone è una tonnara: l’Inter pareggia altre due volte, a Kazan e in casa con la Dinamo, poi a Kiev a 5’ dalla fine è fuori da tutto, prima di una rimontona firmata Sneijder e Milito. Il Barcellona perde incredibilmente col Rubin e vince le altre due. Si arriva così alla partita di ritorno, il 24 novembre. Al Barça basta un pari tutto sommato, ma se perde in casa è eliminata. Guardiola azzarda: in panchina Messi, in panchina Ibra, dentro tutti canterani e i senatori Dani Alves, Henry e Keita. Come finisce? Una mattanza: un 2-0 molto più netto di quanto dicano i numeri.
Al Camp Nou l’Inter la palla non la vede mai, e la sensazione unanime è che tra le due squadre ci siano diverse galassie di differenza, un gap colmabile solo nel corso di anni. O forse di mesi: flash forward, ci si ritrova in semifinale.
Il Barcellona ci arriva passeggiando sull’Arsenal nei quarti, l’Inter con una doppia sfida attenta controllata agevolmente contro il CSKA Mosca. A San Siro il copione sembra quello della sfida precedente. L’Inter non parte male, ma il Barcellona passa al primo affondo: Maxwell fila via indisturbato e serve Pedro che insacca. 0-1 e la semifinale sembra già indirizzata. A quel punto succede qualcosa, però: l’Inter semplicemente si stappa, come un tappo di spumante o di cava come lo chiamerebbero sulle ramblas. Attacca a testa bassa e mette gli azulgrana alle corde. Sembra stregata: Milito è fermato un paio di volte per offside discutibili, poi manca la rete due volte per millimetri. Invece è la sua serata.
Innesca Sneijder che fulmina Valdes, temporeggia, aspetta Maicon, gli dona una palla che il brasiliano mette in rete con un allungamento muscolare oltre i confini della fisica. Iscrive anche il proprio nome nel referto, col gol forse più facile della sua carriera. Guardiola da quando allena il Barcellona, oltre ottanta partite, non ha mai perso con più di un gol di scarto. Ne prende tre in mezz’ora e potrebbe prenderne altrettanti: dopo il gol del tre a uno, con San Siro in pieno delirio, mette un difensore, Abidal, per una punta, Ibrahimovic. Obiettivo: mantenere il tre a uno, e lasciare che la tempesta passi. Passa e tutto sommato gli va bene così: in casa fin lì il Barcellona tra campionato e coppe nell’anno solare ha preso 5 gol segnandone 36. Ingiocabile, un due a zero sembra un risultato tutto sommato facile.
Il ritorno nessun tifoso interista lo ha mai vissuto come una successione logica, temporale e consequenziale degli eventi. Fu piuttosto un esperimento di dilatazione temporale, in cui il tempo divenne un cerchio piatto come diceva Nietzsche e una baraonda di immagini si alternarono in loop.
La coreografia del Camp Nou, la Remuntada, il sogno della rimonta nelle corde di quella che fino alla sera di San Siro era ritenuta a ragione la squadra più forte del mondo. Pandev che si fa male nel riscaldamento e Chivu che allaccia il caschetto e si prepara alla battaglia. Julio Cesar, che nel primo tempo prende un cartellino giallo per perdita di tempo e da lì in poi a ogni rilancio dal fondo gioca a poker con l’arbitro. Busquets che toccato da Motta cade fulminato e poi da terra si gusta la scena dell’interista espulso. Ibrahimovic che va a parlare con Guardiola e Mourinho che si intromette.
Cronisti affidabili riporteranno la frase che avrebbe detto. Tu pensi che la partita sia finita, ma è lontana mille miglia dall’essere finita. Mcdonald Mariga, che gioca pochi minuti e diventa il secondo gambone più celebre della storia italiana, dopo il sempiterno Garpez di Tre uomini e una gamba.
Il boato del Camp Nou al tardivo vantaggio di Pique.
Il secondo boato, subito smorzato, al raddoppio di Bojan, annullato per un controllo di mano di Yaya Tourè
I ragazzi che corrono non si sa dove non si sa perché ma aspetta, è finita, è finita, l’Inter va a Madrid.
Gli idranti accesi, i nostri in festa, gli interisti che non ci credono. Come finì quella stagione e dove andò il Triplete, è cosa nota e nei libri di storia
Da lì in poi passerà un po’ di tempo prima che Inter e Barcellona si ritrovino, e i quattro confronti tra il 2018 e il 2019, sempre fase a gironi, sottolineano la distanza che c’è tra le due squadre. Il Barça nel frattempo di Triplete ne ha fatto un altro, nel 2015, a Messi ha affiancato Neymar e Suarez, e ogni anno parte favorita per vincere tutto; Copa del Rey, Liga e Champions. L’Inter in Champions ci è appena tornata, dopo sette lunghissimi anni, alla sua maniera, ma la distanza è ancora troppo grande. Il primo anno strappa un punto in due partite, figlio di un guizzo di Icardi; in quello successivo improvvisamente Lautaro Martinez accende la luce, subito spenta da Suarez, nella gara di andata. Il ritorno se possibile certifica ulteriormente il gap: il Barcellona schiera solo due titolari e vince comunque a San Siro. L’Inter è eliminata dalla fase a gironi in entrambi i casi.
Quello del girone sembra uno scoglio improvvisamente insormontabile per l’Inter che però con Simone Inzaghi ritrova la magia delle notti europee. Il primo anno con il tecnico piacentino i nerazzurri passano il raggruppamento per venire poi eliminati negli ottavi, avversaria il Liverpool, pur vincendo ad Anfield. Nel secondo ci riprova: la squadra ha un suo impianto di gioco riconoscibile, il 3-5-2. Magari non modernissimo a livello di numeri, ma l’interpretazione è da calcio totale: gli interpreti si scambiano di posto innumerevoli volte, e non è raro vedere i difensori in attacco e gli attaccanti nella propria area. Nel 2022-23 l’urna dice ancora Inter e Barcellona con un terzo incomodo, sono i casi della vita, di nuovo il Bayern Monaco.
Il girone sembra fuori portata, poi succede qualcosa. Le due sfide coi catalani sono quelle centrali del raggruppamento, che l’Inter inizia perdendo in casa coi tedeschi per poi vincere a Plzen la seconda partita. L’andata un lampo di Calhanoglu, primo gol in Champions con l’Inter del turco, decide la partita.
Il Barcellona deve vincere al Camp Nou, cosa che è sempre successa nella storia della Champions delle sfide tra le due formazioni. Eppure qualcosa si inceppa. Il Barça è formidabile: ha Lewandowski, il miglior centravanti puro al mondo, le frecce Raphinha e Dembelè al suo fianco, altri fenomeni della cantera, Pedri e Gavi, e un paio di superstiti addirittura delle sfide del 2010, Busquets e Piquè. L'esito sembra segnato e così sembra nel primo tempo. 1-0 di Dembelè e il Barcellona che fa più o meno quello che vuole.
Ma l'Inter di Inzaghi ha è una squadra europea. Non solo per ritmo, gioco e vocazione, ha anche un’altra caratteristica. Anche se imbarca acqua, non esce mai dalla partita ed è capace di soffrire. Il secondo tempo è uno dei più esaltanti della storia interista. Segna subito Barella, capitalizzando un lancio suarezesco di Bastoni, poi Lautaro Martinez fa il bis del gol del 2018. Due visite in Catalogna, due gol: non si ricordano altri centravanti interisti a segno da queste parti, almeno finora.
Il Barça di Guardiola, parentesi Ibrahimovic a parte, il centravanti sostanzialmente non ce l’aveva, quello di Xavi invece ce l’ha eccome. Robert Lewandowski, 34 anni ma l’ultimo ad arrendersi, segna il gol che tiene vivi i blaugrana. Che premono e si dimenticano che l’Inter di Inzaghi sarà anche maestra di uscite dal basso, ma quando vuole va in verticale. Onana per Lautaro a tagliare il campo come un laser, Gosens azzecca il diagonale. Segna ancora Lewandowski, Asllani non riesce a segnare il 4-3 ma poco cambia: il pareggio è oro, sarà l’Inter a passare e ad arrivare in fondo alla competizione, fino all’ultimo atto.
E questa volta? Inter Barcellona non sarà un Clasico ma è diventato un clasico del nuovo secolo in Champions League. Rispetto all’ultima volta, qualcosa sarà fisiologicamente cambiato, ma tanti volti saranno gli stessi. Tanti volti che sanno la differenza tra dire che si venderà cara la pelle e venderla cara davvero.
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