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·21 Januari 2025

Come accadde che Bologna si attaccò al tram (Parte seconda che è poi la prima: La metro ripudiata)

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Parte seconda che è poi la prima: La metro ripudiata


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Un breve intermezzo per illuminare il rapporto filosofico tra fatti riferiti e realtà effettuale. Negli ultimissimi anni Cinquanta, io ero un ragazzo, un mio amico più grande era stato in Svezia con una delegazione politica. Al ritorno, in assembramento davanti all’Osteria dei Canaletti, oggi scomparsa, il nostro amico ci relaziona sulle mirabilie che riguardano le ragazze svedesi. Erano gli anni in cui, liberate dalle incrostazioni depositate prima dal cristianesimo cattolico, poi da quello protestante, riemergeva improvvisamente nelle donne svedesi lo spirito libero che le aveva caratterizzate durante l’antico paganesimo vichingo. Chiosa in proposito il mio amico un enunciato che io mi asterrò dal tradurre:

«E… mai guai! Mai guai! Tirérlial fôra».

Il fatto è che il mio amico era già sposato lì in borgata, quindi per pararsi le spalle fece una premessa:

«Intindàggnas, a mé i m l’èn détt! Però av asicûr c l’é acsé!». «Intendiamoci, a me l’hanno raccontato! Però vi assicuro che è così come vi dico!».

Sarebbe successo che, subito dopo la sua elezione, nell’estate del 1999, la Giunta comunale di Guazzaloca si trovò in agenda una pratica imprevista: accettare un finanziamento governativo per ricostituire la tranvia, smantellata negli anni Sessanta, quando anche la sinistra aveva perso la testa per gli autobus. Quel finanziamento era stato chiesto dalla Giunta precedente, quella di Valter Vitali ‘il Modernizzatore’, che improvvidamente aveva cominciato già a costruire un cordolo sulla via Emilia ponente a Borgo Panigale, cogliendo di sorpresa i cittadini stessi e fornendo al candidato Guazzaloca un’ottima opportunità elettorale. Rinunciare a quel finanziamento non fu operazione fatta a cuor leggero, eppure non ci furono dubbi. La stessa Soprintendenza ai beni culturali (dottor Elio Garzillo) aveva dato parere negativo al progetto, specie in riferimento al suo passaggio devastante sotto le Due Torri. Certo, quei soldi non potevano essere dirottati su un altro progetto, non funzionano così le buone regole amministrative, ma fu in quella circostanza che si cominciò a pensare ad un’alternativa e nacque l’idea di una metropolitana sotterranea. I pregiudizi contro un’opera del genere non erano pochi. Il sottosuolo archeologico, il controllo delle acque, la solidità delle paratie, i costi elevati e via continuando. Erano le stesse obiezioni sollevate contro i parcheggi sotterranei e, in precedenza, contro la stazione dell’alta velocità ferroviaria. Ma nonostante le resistenze, gli studi di massima cominciarono a prendere forma. Il vicesindaco Salizzoni e l’assessore al traffico Pellizzer, sostenuti da tutta la Giunta, insediarono un Ufficio Progettazione ai cui lavori partecipò anche un vecchio direttore dell’Ufficio Tecnico comunale dei tempi di Imbeni, che era stato il progettista della tangenziale e si era visto bocciare dal sindaco tutte le sue proposte di ampliamento, e che si offrì di lavorare volontariamente. L’anima operativa del progetto sembra sia stato l’ingegner Giovanni Crocioni, noto oltre che per la sua competenza soprattutto per la tenacia. Venne cercata la collaborazione con la società milanese che aveva realizzata la linea 3 del metrò di Milano e alla fine venne fuori il progetto di due linee di metropolitana leggera automatica che facevano perno sulla nuova stazione dell’alta velocità: una che, proveniente dalla Fiera, attraversava ortogonalmente la stazione dell’alta velocità per giungere sotto San Michele in Bosco, facendo tappe anche nel sottopassaggio di via Rizzoli, e la seconda che collegava la stazione all’aeroporto. Questa dell’uscita della metro dal sottopassaggio di via Rizzoli è una roba che m’intriga particolarmente. Oggi i sottopassaggi sono chiusi, ma nella mia adolescenza di studente pendolare della provincia li ricordo come un luogo divertentissimo e vivacissimo di incontri ed esperienze. Che forte se, senza alcuna manomissione ambientale, i passeggeri della metro se ne fossero usciti per i gradini dei sottopassaggi spuntando tranquillamente in centro! Rete Ferroviaria Italiana, diretta allora dall’ingegner Moretti, ex sindacalista e amico di Massimo D’Alema, collaborò ad approvare una variante alla stazione AV che prevedeva il passaggio ortogonale a mezza altezza del metrò all’interno del ‘cassone’ dell’AV ferroviaria. A guidare l’opposizione a questo progetto furono soprattutto la Provincia (il presidente Vittorio Prodi, fratello di Romano, e l’assessore Tiberio Raboni) e la Regione guidata da Vasco Errani. Nella loro tenace opposizione gli argomenti erano sempre pretestuosi (i reperti archeologici, i rischi di esondazioni, la fragilità del sottosuolo, la scarsità degli utenti…), ma era chiaro che ad essi non andava giù il fatto che un’opera di tale rilievo venisse realizzata dalla giunta Guazzaloca, l’unica nella storia di Bologna non guidata dai partiti della sinistra. Ma nonostante tale opposizione il progetto superò tutti gli esami in sede tecnica e fu approvato dal CIPE, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica. Furono trovati tutti i soldi necessari alla sua realizzazione. Il primo finanziamento lo aveva dato il ministro Bersani (Governo D’Alema), incurante della posizione contraria della sua Regione di provenienza. Poi il ministro Lunardi (Governo Berlusconi) aveva fatto il resto fino al finanziamento del 70%. Il restante 30% spettava al Comune. I soldi furono trovati con l’operazione finanziaria di trasformazione di SEABO in HERA e con la quotazione in borsa della nuova società multiutility. Sia chiaro che io in queste operazioni non ci capisco niente, a me interessa che le stesse furono condotte correttamente e che avevano portato nelle casse comunali ingenti risorse finanziarie e sufficienti risorse allo scopo. Giunti ormai alla possibilità di accedere alla gara di appalto e all’affidamento dei lavori, rimaneva il problema della contrarietà della Regione Emilia-Romagna. Non ci metteva un euro dei propri soldi, si trovava una stazione metropolitana davanti al suo ingresso in via Aldo Moro, ma nonostante questo non mollò la sua opposizione. Si provò per vie traverse ad aggirarla con strumenti legali come il silenzio assenso, ma non ci fu niente da fare. Alla fine la Regione presentò un ricorso alla Corte Costituzionale. Voi direste, come qualunque persona di buonsenso: ma che c’entra la Corte Costituzionale col metrò? Infatti, non di metrò discusse l’Alta Corte ma di federalismo. Erano i tempi in cui il federalismo, patrocinato dalla Lega di Bossi e inseguito anche dai Governi della sinistra, aveva messo radici nel Titolo Quinto della Carta Costituzionale, stravolgendone l’impianto del 1948. Il tema su cui discusse e sentenziò la Corte era il seguente: è costituzionalmente corretto fare un’opera pubblica di quella rilevanza se la Regione non è d’accordo? E la Corte, rimanendo nell’ambito delle sue competenze, non prese neppure in esame il progetto della metropolitana, ma sentenziò che un’opera del genere non si poteva fare senza il parere favorevole della Regione. E tutto il progetto saltò in aria. Questi sono i fatti, e chiare sono le responsabilità di chi ha impedito a Bologna di realizzare un’opera che oggi sarebbe già perfettamente funzionante, con grande vantaggio dei suoi utenti bolognesi. Quello che è successo dopo, dalle tristi vicende del Civis al rilancio ormai inarrestabile del tram, è come un magma eruttato dal sottosuolo della metro mancata che sotto forma di lavori in corso ha invaso e sconvolto la vita e le vie della nostra città.

Bombo

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