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·31 Mei 2025
Gazzetta – Napoli, lo scudetto s’identifica in Antonio Conte! Il tecnico si è lasciato coinvolgere, ma non sottomettere…

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·31 Mei 2025
Il Napoli dopo lo scudetto con Luciano Spalletti sembrava non aver concluso la propria sorte, si era calcisticamente arenato. Antonio Conte, come il Noodles di C’era una volta in America che torna da Moe nel bar di New York con la chiave della pendola, sul retro, per rimettere in moto il tempo, ha riacceso la sorte del Napoli, dandogli un altro scudetto, il quarto. È riuscito a farsi ascoltare e assecondare da Aurelio De Laurentiis e ha instaurato un dialogo alla pari con Napoli. Non una cosa semplice. Si è lasciato coinvolgere, non sottomettere.
Non ha cancellato il suo passato, ma ha accettato di immergersi nel presente caotico. Ha scelto di vivere al centro della città, non si è sottratto all’invasività napoletana come aveva fatto Spalletti, che dormiva nel centro sportivo a Castel Volturno su un divano letto sotto un poster di Maradona. Ha quindi conquistato ed è stato conquistato. Ma Conte è riuscito a difendersi dalla sovrascrittura napoletana, rimanendo se stesso: un passo dietro l’ammuina. Nonostante il suo stare in panchina sembri un concerto dei Metallica, l’uomo, fuori dal campo, torna a essere un personaggio di John Le Carré: sospettoso, distante, pragmatico e doppio. E su questa doppiezza è riuscito a costruire il successo del Napoli, la sua nuova sorte calcistica. Senza insostituibili, con uno scarto del Manchester United, Scott McTominay, e uno del Chelsea, Romelu Lukaku, e che quando gli hanno tolto Khvicha Kvaratskhelia ha accusato il colpo per un mese, il febbraio nero che non era nero come l’agosto incerto, cerchiato come il momento peggiore, e poi sul finale si è affidato agli “esterni” sì, delle altre squadre: Soulé, Orsolini e Pedro. Conte che ha cambiato modulo tre volte in base alle carenze, non con la fantasia di Maurizio Sarri che si inventò Dries Mertens capocannoniere – a riprova che al Napoli prima o poi tutti si devono arrangiare – ma in modo cartesiano, perché Antonio è un razionale, più matematica che istinto. Un conservatore, nel modo di Manlio Scopigno, allenatore del Cagliari dello scudetto nel 1970, che, dovendo declinare a Gigi Riva e compagni cosa fare per vincere, diceva: “Il calcio ha dieci comandamenti”. Poi faceva una pausa e recitava: “Primo, non prenderle. Secondo, non prenderle. Terzo, non prenderle”. E, sollevando beffardo l’occhio sempre assonnato verso i calciatori, aggiungeva: “Devo proseguire?”. Conte non ha questa ironia, e al posto del whisky di Scopigno (“esistono solo tre tipi di whisky: il whisky, il whisky doppio e il whisky triplo”, per indicare il senso della vita e del calcio), ha la cascina col fieno, una metafora usata fino allo sfinimento quando il Napoli correva e faceva punti e tutti cominciavano a chiedergli se puntasse allo scudetto. Il suo grande merito è che ha raggiunto l’eccezionalità con la normalità e i sacrifici, questa volta il Napoli non ha avuto miracoli, ma solo una corsa lunga e tortuosa, incarnando un paradosso: era meno forte dell’Inter, giocava meno bene, si spogliava dell’unico fuoriclasse che le rimaneva, Kvaratskhelia, finendo comunque per vincere.
Conte aveva esordito con “Amma faticà” e i suoi giocatori hanno faticato un bel po’, resistito tanto, segnato pochino, il giusto che bastava, e subito solo 27 gol. E mentre il Napoli resisteva, Conte si sovrapponeva alla squadra con l’intento doppio di difenderla e appropriarsene, e come poi ha scoperto nella sera dei festeggiamenti anche “il tiranno silenzioso” Aurelio De Laurentiis, Napoli non è matrigna, almeno non con la costanza che le si attribuisce, ma lascia fare, lascia che gli stranieri come Conte le si sovrappongano, traendo benefici e parlando a suo nome, anche quando vengono pizzicati dalle sue frange cattive, come accaduto a Monza, in una delle ultime giornate da girone dantesco, con l’allenatore che, come Siddharta, è uscito dal palazzo e ha scoperto che non erano solo carezze, ma c’era anche chi lo insultava chiedendogli cambi che non arrivavano. È stata una stretta sentimentale, l’unica crisi esterna di Conte e del tifo del Napoli, le altre sono state tutte interne e tenute bene. Anche perché l’uomo Conte ha un atletismo comunicativo, una vocazione al sacrificio che è “menneiana”: lavora, resiste, vince. La sua introversione è da fachiro. Sente le partite più di qualunque allenatore della sua generazione, forse solo Arrigo Sacchi era più “sofferente” nell’attesa leopardiana, ma poi, mentre Conte esplode a bordo campo, Sacchi guadagnava semplicemente il ritorno alla socialità. La sua realtà calcistica è pensata, vissuta e applicata con una compulsività permanente che diventa crudeltà agonistica e che si libera con eccessi bambini. All’inizio, il suo uomo in campo doveva essere Romelu Lukaku, il calciatore permanente, quello evocato, cercato, atteso e poi usato, spremuto, giocato principalmente come riferimento, poi anche come goleador (14 gol e 10 assist); dopo si è aggiunta la sorpresa Scott McTominay (12 gol, 6 assist) che, spostato un po’ più in avanti – come chiedeva al Manchester United prima d’essere ceduto, cercando la felicità del campo nel ruolo che sentiva – è diventato determinante, liberato dal vincolo, lanciato in area è diventato una modalità fondamentale. L’aggiunta inattesa. Non è un caso che, su 59 gol del Napoli, in campionato 26 siano di Lukaku e McTominay, quasi la metà.
Ma non sono stati solo i numeri, i due calciatori hanno incarnato il contismo con una continuità e una passione combinata a una volontà missionaria. Lukaku è stato pugile, rugbista e giocatore di pallacanestro, per come ha incassato i colpi, ha fatto da parafulmine e distribuito palloni che riceveva, aprendo il campo con i suoi piedi, facendo da punto d’appoggio, accollandosi la responsabilità di subire colpi e colpe; McTominay è stato tennista e scacchista, per l’intelligenza di strategia, inserimento e il controllo mentale, soprattutto in area, dove voleva stare da anni e dove Antonio Conte ha lasciato che stesse, con risultati inaspettati, tanto da essere la rivelazione della stagione. In questa combinazione multisportiva di ruoli e sacrifici, c’è stata la stravolgente differenza del Napoli di Conte, piccole combinazioni di semplicità: funzioni molteplici e concessioni alla volontà – se tornava utile alla squadra – il resto, poi, l’hanno fatto le emergenze, con una rosa non corta, ma sicuramente non sempre adatta alle esigenze. Conte, nonostante la fama mourinhesca di compilatore di liste di imprescindibili, e nonostante le volute esagerazioni critiche su quello che aveva (che servivano anche ad aprire un varco per l’eventuale abbandono del Napoli), alla fine ha dimostrato di essere molto cresciuto tatticamente e umanamente, usando il lamento come connessione dell’anima, infastidendo e facendosi sottovalutare, per poi trovare risorse inaspettate in Philip Billing e Leonardo Spinazzola. La diversità di Conte unita alla diversità di Napoli ha dato vita a una anomalia: il bel gioco è stato sacrificato per larghi tratti, tradendo le radici maradoniane, ma senza l’appropriazione contiana, senza l’impossessamento contiano non ci sarebbe mai stato questo scudetto. Conte ha scelto l’unica strategia possibile che doveva portare a una qualificazione Champions sicura, e poi, partita dopo partita, ha capito che poteva prendersi per la terza volta con la terza squadra diversa lo scudetto. L’ha capito quando ha vinto a Bergamo, lì il Napoli ha subito il totale impossessamento contiano, il resto (esperimenti tattici, nuvole fantozziane nello spogliatoio e trincee) è venuto di conseguenza.
Ma la natura contiana della vittoria è evidente, e ha anche sancito il forse definitivo abbandono della natura epicurea napoletana in campo. Prima di Conte l’anima napoletana allegra, traballante e conclusivamente legata al giorno per giorno con una leggerezza di gioventù eterna, si era riflettuta nel gioco del Napoli, con progressivi affidamenti agli uomini risolutori, da Maradona in giù, ma, dopo questo scudetto, ha scoperto la distribuzione del protagonismo: non la voce, il corpo, il sangue, la mano, il piede, la testa, ma le voci, i corpi, le mani, i piedi e le teste in campo. Soprattutto ha capito che si poteva non esagerare, o esagerare nella concentrazione e non nell’esibizione. Il Napoli di Conte è stata una squadra profondamente diversa da tutte le altre di questi anni, perché per la prima volta ha esercitato il cinismo calcistico, e l’operazione è riuscita: allacciando la squadra più alla natura di De Laurentiis che a quella della città.
Carlo Gioia
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