All Asian Football
·12 ottobre 2021
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·12 ottobre 2021
Per chi come noi, da un punto di vista puramente calcistico, vive in un tempo ‘strano’ scandito dal fuso orario e dai risultati dei principali campionati asiatici, poter scambiare quattro chiacchiere con Branko Ivankovic, equivale alla sacra, obbligatoria visita a La Mecca per un musulmano (senza scadere nel blasfemo). Branko, infatti, sta all’Asian Football Confederation come Fabio Capello sta alla Roma dello scudetto, come Arrigo Sacchi al Milan dei primi anni 90′, come José Mourinho all’Inter del Triplete.
Il tecnico croato, però, preferisce descriversi semplicemente come un “inguaribile sognatore”, figlio di un calcio e di un’epoca differente, molto lontana dalle convulsioni della nostra epoca, un tempo in cui fare “il mestiere più bello e difficile del mondo” equivaleva ad un autentico dono del destino. “Ho scelto l’Oman perché convinto dal progetto tecnico della Federazione: le loro idee, i loro programmi, mi hanno impressionato positivamente. Gli obbiettivi sono ambiziosi, ma domina la consapevolezza che possano essere raggiunti solo con tanto lavoro, costanza ed investimenti mirati, non improvvisando dal giorno alla notte“.
Dal gennaio del 2020, Branko è il Commissario Tecnico della Selezione omanita, con la quale, nonostante gli sfavori del pronostico e l’impari confronto tecnico/tattico, sta cercando la prima storica qualificazione alla Coppa del mondo Fifa, Qatar 2022. La squadra di Ivankovic è stata inserita nell’ostico gruppo B, con Australia, Arabia Saudita, Vietnam, Cina e Giappone. Le prime due classificate del raggruppamento, dopo le prossime 5 giornate, staccheranno direttamente un biglietto per il Qatar; la terza, invece, si giocherà l’ultimo posto disponibile ai prossimi Mondiali contro la terza del girone A, prima del definitivo spareggio intercontinentale.
“Abbiamo superato all’esordio il ben più quotato Giappone con una splendida prestazione corale, con l’Arabia Saudita, pur non potendo nascondere un certo rammarico, siamo orgogliosi della gara fatta; con un po’ più di fortuna, saremmo ancora imbattuti. Dal mio arrivo abbiamo giocato 12 partite: 8 vittorie, 2 pareggi e due sconfitte – contro Qatar e la sopracitata Arabia Saudita-. La pandemia ha rallentato visibilmente la crescita del movimento; molti calciatori non sono professionisti a 360 gradi, ma svolgono invece due lavori per potersi mantenere e la questione epidemiologica non ha fatto altro che peggiorare determinate situazioni già in atto. Vedo però una grande voglia di migliorare e crescere ulteriormente; qui c’è l’ambiente l’ideale per lavorare alla grande e trasmettere la mia mentalità“.
Arrivato in Oman a 66 anni, dopo una trentennale variegata carriera d’allenatore, Branko sembra avere ancora la fame del ragazzino agli esordi, pronto a studiare con metodo e razionalità, dentro e fuori dal rettangolo di gioco culture, tradizioni ed usanze del paese nel quale lavora, per ottenere il massimo dalla sua squadra. Oggi più che mai, torna buona la pluriabusata e persino logora citazione di José Mourinho: “Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”.
Il calcio è il gioco più bello del mondo anche per questo. Sono fiero della direzione che ha preso la mia carriera: credo che la crescita del movimento calcistico asiatico sia evidente; diverse squadre europee di primissimo livello possono vantare calciatori iraniani, giapponesi, coreani, australiani nelle loro rose. Il Mondiale in Qatar può essere un’ottima occasione per confermare i risultati ottenuti in campo continentale negli ultimi anni“. Dall’alto della sua esperienza, da vincente, in Estremo Oriente, il tecnico croato ci regala alcuni preziosissimi aneddoti sulla complessa attualità legata al macrocosmo calcistico della “Terra di Mezzo”, dimostrando, ad anni di distanza, una grandissima riconoscenza nei confronti di una realtà fondamentale per il suo percorso professionale.
“Quella in Cina è stata un’esperienza fantastica, l’impatto non è stato facile, sarei un folle a nasconderlo, ma ci siamo tolti grandissime soddisfazioni. Ricorderò sempre con particolare affetto il titolo vinto con lo Shandong Luneng. Credo che il problema principale del movimento sia legato alla mentalità dei calciatori: sono soldatini, totalmente disinteressati al lavoro di squadra, fondamentale per ottenere determinati risultati. Ho provato a lavorare sulla mentalità, non unicamente sulla tattica. A livello federale credo manchi ancora qualcosa, per il definitivo salto di qualità, bisogna avere pazienza“.
Citando Giancarlo Dotto ed il suo: “Il Dio che non c’è”, se un giorno mi chiederanno o chiederò: “Che cazzo hai fatto in questa tua stupida vita?”, non avrò dubbi, risponderò prima di ogni altra cosa: “Ho chiacchierato per 30 minuti con Branko Ivankovic”.