La Nazionale nel suo periodo più buio: ma né la ricetta inglese né quella tedesca sembrano possibili | OneFootball

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·1 luglio 2024

La Nazionale nel suo periodo più buio: ma né la ricetta inglese né quella tedesca sembrano possibili

Immagine dell'articolo:La Nazionale nel suo periodo più buio: ma né la ricetta inglese né quella tedesca sembrano possibili

Negli ultimi 18 anni, ovverosia dalla notte di Berlino 2006 in poi, la nazionale di calcio italiana ha collezionato i seguenti risultati nei grandi tornei internazionali:

  • Europei 2008: eliminata nei quarti ai rigori dalla Spagna, poi laureatasi campione;
  • Mondiali 2010: eliminata nella fase a gironi in un gruppo comprendente Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda;
  • Europei 2012: persa la finale venendo umiliata dalla Spagna per 4-0 e con Casillas che indicava ai compagni e all’arbitro di non inferirire nel recupero chiedendo «rispetto per l’Italia»;
  • Mondiali 2014: eliminata ai gironi in un gruppo comprendente Inghilterra, Costa Rica e Uruguay;
  • Europei 2016: eliminata dalla Germania ai quarti nei rigori;
  • Mondiali 2018: non qualificata;
  • Europei 2020 (giocati nel 2021 a causa del Covid): vincitrice;
  • Mondiali 2022: non qualificata;
  • Europei 2024: eliminata agli ottavi.

Se si guarda alla storia, si nota che negli ultimi 18 anni la nazionale italiana quindi ha vissuto il secondo periodo peggiore in termini di risultati. Peggio di ora ci sono stati soltanto i 18 anni intercorsi tra i Mondiali 1950 in Brasile e il trionfo azzurro agli Europei in casa nel 1968. In quel periodo avvenne la mancata qualificazione ai Mondiali 1958 e la nazionale non centrò mai nemmeno una semifinale, arrivando pure a essere eliminata dalla Corea del Nord ai Mondiali 1966 in Inghilterra.


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Il grafico sottostante evidenzia bene come, al di là dei due picchi ottenuti agli Europei 2012 (per quanto umiliata in finale la nazionale giunse sino alla partita conclusiva) e agli Europei 2020, la curva che ne deriva è caratterizzata da molti, moltissimi bassi e pochi alti.

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Colpe e attenuanti per Spalletti, ma il problema è più profondo

Si scrive questo non per sminuire le colpe di Luciano Spalletti di cui hanno riferito nei dettagli gli inviati in Germania delle stampa nazionale. Si va dalle mancate certezze in termini di formazione titolare (sia come uomini che come modulo) ai troppi cambi durante le quattro partite del torneo, oltre a una condizione fisica rivedibile (la stagione è stata stancante per tutti i presenti agli Europei, ma c’era chi andava al doppio) e la fissazione per i fedelissimi come Di Lorenzo, in un generale clima di tensione anche interna che non sembra essere piaciuto ai giocatori in primis.

Per quanto riguarda le attenuanti, posto che all’Italia di quest’anno non si chiedeva di asfaltare il Brasile di Pelé o l’Argentina di Maradona ma solo di non essere umiliata dalla Svizzera, queste includono:

  • un bacino di italiani sempre minore da cui poter andare a pescare;
  • il rendimento sottotono di diversi tra quelli che dovevano essere i trascinatori;
  • il minor tempo rispetto ai predecessori per preparare il torneo (10 partite rispetto alle 20 di Conte e Prandelli e addirittura 32 per Mancini complice lo slittamento degli Europei per il Covid).

Né tantomeno si vogliono smorzare le colpe del presidente federale Gabriele Gravina, che quantomeno ha il demerito di avere scelto lui il tecnico. Nella stessa situazione, dopo il flop Mondiale 2014 e la mancata qualificazione ai Mondiali 2018 gli ex presidenti federali Giancarlo Abete e Carlo Tavecchio presentarono le loro dimissioni.

Per onestà intellettuale va spiegato però che, se ci limitiamo al campo dei risultati della nazionali (e quindi non entriamo in quella della politica sportiva) va anche detto che se Gravina, eletto presidente appunto in seguito alle dimissioni di Tavecchio, ha la responsabilità nella mancata qualificazione ai Mondiali 2022 e nel disastro di Euro 2024, ha anche i meriti in occasione del successo di Euro 2020.

Invece si scrive questo per evidenziare che il male di cui soffre la nazionale azzurra è più profondo e supera i danni causati dalla gestione Gravina-Spalletti.

La prima grande dell’Italia crisi post-1966 e le conseguenze

In questo scenario, al di là delle attenuanti di cui sopra, va notato che dal primo periodo di grande crisi della nazionale azzurra (1950-1968) si uscì con un provvedimento drastico: dopo l’eliminazione ai Mondiali 1966 per mano della Corea del Nord si decise di impedire alle nostre squadre di acquisire nuovi giocatori stranieri. I risultati vennero quasi subito: vittoria agli Europei 1968 in casa e finale ai Mondiali del Messico di due anni dopo, persa soltanto contro quella che molti pensano essere stata la miglior squadra di tutti i tempi ovverosia il Brasile 1970.

Questa prima ondata di successi avvenne per merito di quella generazione di talenti italiani che erano cresciuti a fianco di grandi giocatori stranieri che miltavano per esempio nell’Inter e nel Milan (entrambe due volte campioni d’Europa negli anni sessanta) in aggiunta a fuoriclasse straordinari quali Riva, oltre gli schemi anche per quanto riguardano le scelte di vita.

Poi, dopo il flop al Mondiale 1974, la nazionale si riprese in virtù di quei giocatori italiani cresciuti negli anni settanta nelle squadre  di Serie A senza stranieri. Da lì presero l’abbrivio le splendide nazionali di Bearzot del 1978 e del 1982.

È evidente però che nell’attuale contesto politico internazionale, con l’Europa unita  e la moneta unica, un provvedimento di questo tipo è impensabile, quantomeno per i giocatori comunitari.

E quindi che fare?

Dalla Germania all’Inghilterra, i modelli delle rivali

Nelle grandi organizzazioni, siano esse aziende o movimenti (quale può essere una federazione calcistica), una delle prime idee quando si vive un momento di crisi è quella di guardare a cosa hanno fatto i propri simili in contesti non semplici. In questo quadro, per peso del campionato e degli equilibri tra questo e la nazionale (quindi in ultima istanza tra le leghe e le federazioni), sono soltanto quattro i casi simili all’Italia: Francia, Spagna, Germania e Inghilterra (ovvero le Big5).

Però anche all’interno di questo gruppo appare necessario fare un distinguo. Francia e Spagna sono diventate nazionali di prima fascia solo nei tempi recenti. Gli iberici, se si eccettua l’Europeo 1964 vinto in casa (in una edizione che nella fase finale si disputò tra quattro squadre dopo una lunga fase di qualificazione ad eliminazione diretta), sono diventati protagonisti a livello di selezioni solo con la generazione di Xavi e Iniesta. Tanto vicina che nei fatti non hanno ancora vissuto un lungo periodo di crisi.

I transalpini, con l’eccezione del terzo posto a Svezia 1958, iniziarono a essere tra i top solo negli anni ottanta solo la generazione di Platini, Giresse e Tigana. E poi di li in virtù dell’esplosione del potenziale insito nella grande mescolanza etnica presente nel Paese che ha trasformato non solo la nazionale ma la stessa Francia nella più grande creatrice di talenti in Europa.

Diverso invece è il discorso per quanto riguarda le nazionali di Germania e Inghilterra, che come quella italiana, da sempre si sono sempre presentate alle grandi manifestazioni internazionali con ambizione. Anche se con risultati spesso opposti: gli inglesi quasi mai vincenti, i tedeschi quasi sempre competitivi.

Nello specifico, la nazionale inglese ebbe il suo peggiore periodo negli anni settanta dopo il tramonto della generazione che portò al titolo Mondiale 1966 e ai quarti in Messico quattro anni dopo, i Tre Leoni non si qualificarono ai Mondiali sino a Spagna 1982. Ad aiutare la nazionale inglese fu la forza del campionato di Sua Maestà le cui società tra il 1976 e il 1984 vinsero sette edizioni di Coppa dei Campioni su otto (unica eccezione l’Amburgo nel 1983) e nelle cui fila crebbero molti giovani di talento. Di li vennero i buoni risultati a Spagna 1982, Messico 1986 fino al quarto posto a Italia 1990.

Lo stesso dicasi per quanto successo dopo le difficoltà dei primi anni novanta. Quando nel 1992 venne creata la Premier League, con nuovi meccanismi di autonomia dalla federazione e soprattutto con una capacità manageriale volta al massimizzazione delle entrate grazie anche ai diritti tv e al merchandising su scala intercontinentale, si capì quasi da subito che il campionato inglese sarebbe presto diventato il torneo più importante d’Europa. Così imparando a fianco dei grandi campioni importati prima emerse la generazione dei Beckham, Scholes e Gerrard tra gli altri. E ora, dopo che da più di un ventennio la Premier League è la il locomotiva del calcio internazionale,  l’Inghilterra può vantare uno delle rose più talentuose del mondo (anche se il ct Southgate non sembra saperla utilizzare appieno).

A pensarci bene quando la Serie A era il campionato migliore al mondo (anni ottante e novanta) le nazionali italiane sono sempre state competitive. E non pochi giocatori del Napoli degli anni ottanta hanno spiegato  che dal punto di vista tecnico avevano imparato di più allenandosi anche per una sola stagione con Diego Armando Maradona che nel resto della loro vita lavorativa.

Diverso è invece il discorso per la Germania. La nazionale tedesca, dal 1966 sino al 1996 difficilmente non centrò le semifinali di ogni grande manifestazione (sia Europei che Mondiali). Bastarono però i pessimi rivedibili a Francia 1998 e a Euro 2000 (rispettivamente venne eliminata ai quarti e ai gironi) perché a Berlino e dintorni suonasse l’allarme in vista dei Mondiali 2006 da organizzare in casa. Siccome in Germania storicamente c’è un solo grande club (il Bayern Monaco) in quel caso non fu difficile per la federazione prendere in mano la questione. Vennero creati diversi centri federali nell’intero Paese nei quali far crescere i talenti di una società ormai multietnica. Non a caso ancora oggi Arrigo Sacchi sulle colonne de Il Corriere della Sera ha spiegato: «Serve un rinnovamento, siamo rimasti fuori due volte dal Mondiale. Ma quante volte lo abbiamo ripetuto? Poi però non facciamo niente. In Germania hanno 24 centri federali. In Francia 16. La Svizzera tre. Noi uno, costruito nel 1957. Senza strutture non c’è progettualità. Senza progettualità non c’è crescita». L’ex ct ha poi proseguito: «Quando nel 2010 sono entrato in Figc come coordinatore tecnico, a ogni partita contro i ragazzini svizzeri prendevamo 3-4 gol. Così sono andato da loro, per capire. Noi facevamo due giorni di allenamento, di corsa. Loro, avendo tre centri federali che raccolgono ragazzi ogni 80-90 km, lavoravano una settimana intera. È così che si cresce».

Le difficoltà dell’Italia con le elezioni sullo sfondo

E per l’Italia ora quale strada guardare con maggiore attenzione? Il punto è che il nostro Paese sembra essere in mezzo al guado. Pensare che i nostri club, anche se venisse concessa loro l’autonomia stile Premier League che vogliono dalla FIGC, possano creare in poco tempo il miglior campionato al mondo e quindi far crescere i nostri giovani al fianco dei più grandi campioni al momento sembra fantascienza pura.

Nel contempo la federazione non sembra avere la forza di imporre la sua volontà ai club soprattutto sul tema di una maggiore utilizzazione dei giocatori italiani da parte dei grandi club. Né sembra provvista di progettualità per sviluppare quei centri federali che mancano da lungo tempo.

L’idea, emersa in questi giorni, di creare una commsione composta da diversi dei principali dirigenti di club italiani (il presidente dell’Inter Giuseppe Marotta, il direttore sportivo della Juventus Cristiano Giuntoli, il direttore generale dell’Atalanta Umberto Marino e il direttore sportivo del Bologna Giovanni Sartori), volta a cercare una maggiore cooperazione fra la Nazionale e i club di Serie A, sembra per ora un pannicello caldo. Oltre che in un Paese sempre pieno di sospetti far drizzare le orecchie a tutti quei tifosi dei club che non hanno un esponente in questa commissione.

Inoltre il mandato di Gravina è in scadenza, tanto che la FIGC ha già ufficializzato che il prossimo 4 novembre andranno in scena le elezioni, in anticipo rispetto alla fine del mandato prevista per marzo 2025. Secondo alcuni addetti ai lavori, una mossa per ridurre il tempo necessario a imbastire una candidatura per eventuali sfidanti. Detto questo, va notato, al di là della valanga di parole di questi giorni, che nell’ultima elezione il presidente federale era stato rieletto con larghissima maggioranza rispetto all’unico altro candidato, l’ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti Cosimo Sibilia (73,45% dei voti per Gravina rispetto al 26,45% di Sibilia).

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