Riserva di Lusso
·4 novembre 2022
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·4 novembre 2022
L’Inghilterra di metà ottocento è spazio e tempo della nascita del calcio. Affidiamo alla Football Association onore e merito dei primi attimi dello sport più seguito al mondo. Maschile, s’intende: la stessa FA avrebbe proibito successivamente alle donne di giocare a calcio perché «insostenibile» e quindi da «scoraggiarne la pratica».
Oggi nel calcio femminile discutiamo di equal pay e professionismo, traguardi auspicabili dopo un già citato passato lungo e travagliato. Ci erano voluti giusto cinquant’anni per poter ridare alle donne calcio e dignità dopo la proibizione del 1921. Ancora oggi lo spazio riservato al femminile del calcio inglese è minimo, distratto dalla patina della Premier League e succube dei fallimenti della selezione nazionale maggiore.
Il calcio lo hanno inventato loro, quindi è inevitabilmente coming home. Sfottò per l’estero, canto ironico e irrisorio per gli inglesi stessi. Beckham, Rooney, Terry, Gerrard, Lampard, nemmeno i più recenti Foden e Kane: non un trofeo che sia uno. Addirittura è stato scomodato Fabio Capello per gestire uno spogliatoio troppo immerso nelle rivalità dei club per coesistere un’estate. Nothing to do. È ancora dolorosa la sconfitta ai rigori contro l’Italia in EURO 2020 nel loro Wembley. E se toccasse alle ragazze, a quelle stesse ragazze precedentemente bandite dal football (ri)portare in cielo l’Inghilterra?
Spirito di rivalsa nazionale, la voglia di dimostrare ai propri colleghi maschi how-to-win-it, un sistema di gioco vincente di un CT dal profilo altissimo. Tutto questo in un Europeo storico e spartiacque. A Wembley l’Inghilterra è finalmente campionessa d’Europa, e un simbolo di questa impresa, un’icona, una sintesi di questo viaggio altro non è che Leah Williamson, capitana delle lionesses e dell’Arsenal Women.
L’immagine in cui Leah ci appare con il completo inglese di un bianco a metà fra una dama angelica e ricordo di Roger Federer, con la medaglia al collo e il trofeo fra le mani, è il simulacro del nuovo mondo del movimento femminile inglese. Più forte dei residui di ingiustizie e preconcetti presenti tutt’oggi. Se il calcio femminile ne uscirà emancipato da tutto questo, sarà possibile grazie anche allo spessore di figure come quello della Williamson.
Un trofeo che l’Inghilterra aspettava da 56 anni, riportato a casa da chi un secolo fa era stato bandito dal football (Foto: Naomi Baker/Getty Images – OneFootball)
Le responsabilità si raccolgono dopo una vita. Essere il cuore dei compagni, il capitano, è una responsabilità. Per esserlo bisogna meritarlo, e nel merito c’è il passato: essere una ragazza fra i ragazzi. Andiamo con ordine. Il seme di Leah è piantato a novanta minuti da Londra, e con le radici salde, lo sguardo si rivolge subito al tempio di Highbury.
Una coda per raccogliere i capelli e le sgomitate per farsi spazio fra i compagni. Il calcio per la piccola Williamson valeva l’apprensione della madre, così quest’ultima decise di farla giocare soltanto con un paradenti blu. Leah stringeva i denti e con gli occhi sognava l’Arsenal di Kelly Smith, fresca campione d’Europa con i gunners. Era l’alba del calcio femminile inglese, ancora privo di sicurezze per le atlete e arretrato rispetto al mondo americano, progressista e (già) d’avanguardia.
In quei tempi, immaginare un futuro da calciatrice era pretenzioso, poiché non garante di sicurezza economica a differenza di un lavoro “vero”. Al massimo poteva essere un hobby. Di questo ne era convinta anche la piccola Leah, ma il lunghista britannico Gregory Rutherford le scuote l’anima: ai giochi olimpici di Londra 2012 è medaglia d’oro e Milton Keynes, la città d’origine per entrambi, si riempiva d’orgoglio e ispirazione. Una piccola donna che sgambettava con il pallone si convince della sua strada, sarà una calciatrice e lo farà con la maglia dei gunners per cui ha sempre tifato.
Come detto, i media non hanno mai predisposto lo spazio dovuto né al football femminile, né all’ascesa di Leah Williamson, nonostante i primi grandi riconoscimenti personali. Serve un evento senza precedenti nella storia della FIFA per assaporare il primo impatto dei media mainstream con Leah: un rigore da ribattere cinque giorni dopo. Parliamo di un Inghilterra-Norvegia delle qualificazioni per l’Europeo under 19, anno 2015. Una delle storie più assurde, nevralgiche e che probabilmente non ha mai superato i confini delle nazioni direttamente coinvolte.
Al novantaseiesimo minuto di gioco, sul risultato di 2-1 per le norvegesi, viene assegnato un rigore all’Inghilterra. Leah, appena diciottenne, con la fascia di capitana al braccio, è la designata alla battuta. Per un’invasione di una sua compagna di squadra, l’arbitro non convalida la rete e anziché farlo ribattere come da regolamento, assegna un calcio di punizione per la Norvegia. A seguito di una decisione delirante e ingiusta, la partita termina sul risultato di 2-1.
Era solo la prima giornata del girone, e per le leonesse c’era ancora possibilità di qualificazione in caso di vittoria con Svizzera e Irlanda del Nord. La FA, tuttavia, era legittimamente contrariata della decisione, e sapeva che il ricorso sarebbe stato sicuramente vinto. Le alternative erano due: rigiocare l’intera gara dall’inizio, oppure ripartire dal calcio di rigore e disputare gli ultimi secondi di gioco rimasti. I primi bagliori della leadership della Williamson emergono tutti in questa settimana densa di drama.
Le inglesi superano l’Irlanda del Nord agilmente con nove reti, di cui due su rigore della capitana Leah. Alla vigilia del match decisivo contro la Svizzera, la selezione nazionale inglese apprende della vittoria del ricorso.
Per la prima volta nella storia della FIFA, cinque giorni dopo la partita originaria, si riprenderà da un calcio di rigore con qualche manciata di secondi a seguire. Il gruppo si scuote e va in visibilio: con una vittoria sulla Svizzera e la trasformazione del calcio di rigore, l’Inghilterra chiuderebbe al primo posto del girone. È ovviamente una questione delicata e la selezione nazionale inglese decide di non proferire parola a riguardo, soprattutto per preservare la serenità della Williamson. Il giorno dopo, alla mattina in aeroporto per la partenza, le ragazze della selezione inglese sono assalite dalla stampa. Da un passaparola tra familiari è diventata una questione nazionale.
La paura che le attenzioni dei media interferiscano con il cammino delle lionesses è legittima, ma non si concretizza. La Svizzera viene sconfitta, e la Williamson si scalda per il grande evento con l’ennesimo goal su rigore a distanza di pochi giorni. Tuttavia era soltanto l’inizio della notte da romanzo che attendeva Leah.
Il contorno di quell’evento era divenuto paradossale. Il rigore sarebbe stato trasmesso in diretta su SkySports e addirittura oggetto di betting. Sugli spalti, il pubblico e la madre di Leah.
Una responsabilità, un merito, un passato. Le immagini e i significati più importanti della vita di Leah Williamson passano tutti in quell’esatto momento. Un rigore è un significato di sé stessi, ma solo se sbagliato. Battere un calcio di rigore è sempre un sacrificio, una chiamata alle armi, un lancio di dadi improvviso. Roberto Baggio lo sa bene, il significato della sua figura ha assunto le forme che tutti conosciamo soltanto dopo Pasadena.
Leah si trovava di fronte alla situazione di visibilità più alta della sua giovane carriera. Passano cinquantotto secondi fra il pallone piazzato sul dischetto e il tiro verso la porta. Lo sguardo della futura stella dell’Arsenal Women abbandona il corpo dell’arbitro solo poco prima della rincorsa. Il portiere intuisce la direzione, ma non è abbastanza: Leah ha segnato ancora. Qualcuna perde un dente nei festeggiamenti.
Se la visibilità al movimento femminile era da sempre ricercata, in quel momento appariva soltanto come una crudeltà inaudita. Leah Williamson racconterà di questo episodio soltanto cinque anni dopo, perché «non volevo essere conosciuta come quella ragazza del calcio di rigore». Il pallone di quella notte è ancora conservato a casa, e quando gli occhi si posano lì, il corpo implora pietà per il ricordo del malessere fisico affrontato. Se fosse andata diversamente, forse il contraccolpo mentale avrebbe potuto frenare la carriera della Williamson. Oggi, invece, è il manifesto della sua personalità, della forgia a cui è stato sottoposto il suo carattere. E il campo ne è dimostrazione.
La bravura tecnica di Leah era abbastanza da coprire l’intero centrocampo. Fin dai primi calci si era posizionata lì, e con i suoi lanci millimetrici aveva fatto le fortune delle sue compagne. Ma la svolta arriva con l’arretramento da difensore centrale. Da un’idea di Joe Montemurro – oggi allenatore della Juventus femminile – la Williamson si adatta facilmente al nuovo ruolo e compie il salto di qualità definitivo. Con un background del genere, è evidente perché Leah sia capace di far apparire la sua efficacia difensiva con estrema bellezza visiva.
La grazia della Williamson non è un vezzo d’artista, bensì una vera e propria ragion d’essere, un physique du rôle letterale. L’aura attorno alla campionessa d’Europa è eterea, paragonabile a la Laura raccontata da Petrarca, non esisterebbe una Leah Williamson senza l’edonismo che esprime nei movimenti. I capelli d’oro, gli occhi di un colore a metà fra quello di un crepuscolo incompiuto e quello del Mar Nordico. L’impatto col suo viso è gelido, ma è presto sciolto dal vivido delle sue espressioni, del suo agonismo e delle sue giocate audaci.
Le percussioni della capitana inglese sono come una extrasistole per il gioco delle lionesses, come un respiro profondo atto a frantumare l’ossatura avversaria. Il disegno vincente inglese cominciava e concludeva dal suo principio, dal suo cuore, dal suo simbolo. Con il coraggio di osare c’è soprattutto la solidità difensiva: con lei in campo sono quattro clean sheet in sei partite, record assoluto per il torneo della UEFA.
Il trionfo con le lionesses è un orgoglio ma soprattutto un primo coronamento di una carriera fin qui entusiasmante: con la pelle dei gooners ha in bacheca già cinque titoli. E gli stimoli non mancano, perché l’ultima Women’s Super League è stata persa per un solo punto a favore del Chelsea.
Un bacio in fronte, come una madre con i suoi figli. Leah Williamson è una benedizione (Foto: Harriet Lander via Getty Images – OneFootball)
Stella dell’Arsenal, simbolo dell’Inghilterra. Capitana, leader, o più semplicemente icona. La grande scalata di Leah Williamson passa anche attraverso le sue parole vive, taglienti e responsabili. Il suo discorso dopo la premiazione a Wembley è trascinante e coinvolgente, appassionato e con una nota sarcastica. Tutto il contrario della personalità di Harry Kane, emblema di una nazionale maschile storicamente spenta, priva di mordente e inconcludente.
La voce di Leah Williamson può fare la differenza. Parla con responsabilità del problema d’inclusività della selezione inglese, ambisce a un calcio rappresentante della ricchezza di un’Inghilterra moderna e multiculturale, con la sua Londra epicentro della globalizzazione. La bandiera dell’Arsenal è senza dubbio una delle personalità più influenti del calcio inglese, tant’è che assieme a Jack Grealish si è legata come testimonial del brand Gucci. Se il numero dieci del Manchester City si è reso riconoscibile per uno stile sbarazzino e un richiamo chav, la numero sei dell’Arsenal Women abbellisce questo sport come se fosse una ninfea su un lago.
Un percorso indimenticabile compiuto nel miglior scenario di sempre per un trofeo femminile. Con più di ottantasettemila persone a Wembley e di diciassette milioni di spettatori totali, EURO 22 è l’evento calcistico femminile più seguito di sempre. È il primo grande passo per il futuro del calcio femminile, nonché una pietra dal valore inestimabile per lo Stonehenge della Football Association.
Cento anni dopo la proibizione di giocare a calcio, le donne vivono finalmente questo sport con un sguardo fiducioso al radioso avvenire. Fra dieci mesi c’è il mondiale di Australia e Nuova Zelanda, e l’augurio è che la finale fra Inghilterra e Germania di Wembley sia solo l’inizio ascendente e non l’apice di questo percorso virtuoso.