Materazzi svela: «Ecco come nacque il triplete, rischiai di dover dire addio all’Inter. Il rapporto con Mourinho, vi dico tutto» | OneFootball

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·20 febbraio 2025

Materazzi svela: «Ecco come nacque il triplete, rischiai di dover dire addio all’Inter. Il rapporto con Mourinho, vi dico tutto»

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Materazzi svela: «Ecco come nacque il triplete, rischiai di dover dire addio all’Inter. Il rapporto con Mourinho, vi dico tutto». Le sue parole

Intervenuto sulle frequenze di Radio TV Serie A, Marco Materazzi ha concesso una lunga intervista ripercorrendo alcune tappe della sua carriera sia con la maglia dell’Inter che con quella della Nazionale.

LA PERDITA DELLA MAMMA – «Mamma era sarda al 100%, papà veneto-friulano. Sono un sangue misto. Quando manca una mamma non c’è età. Non sai mai le parole per confortare le persone quali possano essere. Anche a 80 anni. Perderla in adolescenza non è bello, a il pre sono stati quattro anni veramente difficili. Si è ammalata che ne avevo 11 e l’ho persa a 15. Ho visto le sofferenze di mio fratello e mia sorella. Abbiamo dato il nome Anna, come mia madre, a mia figlia perché era bello il nome e avevo questo desiderio. Siamo orgogliosi dei nostri figli. Grande merito a mia moglie, in parte mio perché quando stai tanto fuori casa devi cercare di non fare danno. Quando mi dicono che sono dei bravi ragazzi è il complimento più grande. Mia moglie Daniela ha un grande merito, adesso che ho smesso possiamo tornare ad essere una coppia. Quando ci siamo incontrati ero un militare…».


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I CONSIGLI DI MIO PADRE – «Quando ho dovuto scegliere lo sport mi ha detto ‘gioca a basket’. Di questo ho fatto uno stimolo per dimostrare a mio padre che aveva sbagliato. Sono contento di avergli dato torto».

LA PASSIONE PER IL BASKET – «Mi riallaccio al rapporto con mia moglie che giocava a basket. Il sabato c’erano le repliche delle gare di Nba e c’era ancora Jordan. Il primo anno a Perugia ho preso il 19, poi il 36 e poi il 23 che mi ha accompagnato per tutta la carriera. Il 23 mi sono sposato ed è anche il giorno di nascita di uno dei miei figli».

SUL SOPRANNOME MATRIX – «Penso che Scarpini abbia fatto una ricerca tra i tifosi ed è nato Matrix. Ne sono contento, ormai mi ci chiamano».

L’ESORDIO IN SERE A E POI IN NAZIONALE – «La prima la giocai contro l’Inter. Avevo appena fatto sei mesi a Carpi. Mia moglie non voleva tornare perché stavamo bene a Carpi. Invece a Perugia giocai contro l’Inter perché un compagno era squalificato. Non dormii perché dovevo marcare Djorkaeff e Zamorano. Non era facile, ma pareggiammo 0-0 e rischiai di far gol su corner. Da lì in poi giocai quasi sempre. Poi sono andato all’Everton, allora quando giocavi all’estero non potevi aspirare alla nazionale. Tornai per cercare di avere questa chance ma avevo davanti Maldini, Nesta e Cannavaro… Però mi dissi che valeva la pena rischiare. Fui convocato per il Sudafrica, proprio a Perugia. In quegli anni c’eravamo a Perugia io e Liverani. Al primo giorno mi sentivo impreparato, sembravo uno che non aveva mai giocato a calcio. Ero emozionato, un pesce fuor d’acqua. Poi in campo fui il migliore e da lì è partita la carriera in nazionale. Era il bello di me, in campo mi trasformavo».

IL MIO RAPPORTO CON GLI ALLENATORI – «Ho avuto grandi allenatori, grandi persone. Mazzone, Cosmi, Lippi, Mourinho. Tantissimi mi hanno aiutato e mi hanno fatto capire come comportarmi da giocatore, uomo spogliatoio o allenatore. A Perugia mi hanno insegnato che le persone più importanti di un gruppo sono quelli che giocano meno. Sono quelle che ti devono tenere la squadra a certi livelli quando manca qualcuno. In India ho fatto l’allenatore per poco e ho fatto esperienza, vincendo. Grazie anche a chi non sapeva comportarsi con chi gioca meno. La pacca devi darla più a chi gioca meno. Sono quelli anche che ti alzano il livello in allenamento».

L’ANNO DEL RECORD DI GOL – «Ho il rammarico che potevo farne di più. Saltai due partite ci furono due rigori. Quell’anno io volevo andare via, poi rimasi perché ci fu una rivoluzione a Perugia. Arrivarono in tanti dalla C o dall’Interregionale. Non sapevo se potevo andare a giocare in una squadra più importante. Mi sono allenato bene dopo l’Intertoto. Sbagliando mi allenai male fino a quel momento. Poi con Cosmi trovai feeling. Mi allenavo anche da attaccante e mi aiutò tantissimo. Poi ci ho messo anche del mio perché mi abituò a vedere la porta. Mi piaceva segnare».

IL PASSAGGIO ALL’EVERTON – «L’Everton è stata un’esperienza bella, la famosa Premier ma non quella di adesso. Era più povera, ma a Perugia ero il capitano e mi volevano bene tutti, compreso Gaucci, che aveva metodi che poi lo hanno portato ad essere quello che è stato e che in ogni caso ringrazio. Il primo anno col Perugia retrocedemmo e mi prefissai di riportarlo subito in A. Mi prefissai di riportare il Perugia in A, lo facemmo ma mi vendettero all’Everton. Dissi che non volevo andare, però allora avevo il contratto da ragazzino e mi proposero dieci volte quel che prendevo a Perugia. Firmai piangendo, ma quando ci fu l’opportunità di tornare lo feci immediatamente. Erano i primi anni in cui in Premier c’erano gli stranieri e gli inglesi avevano un po’ di gelosia. Capii però cosa significava essere straniero e giocare in un altro campionato. Questo mi aiutò negli anni dopo a far integrare gli stranieri».

L’ESPERIENZA ALL’INTER – «Con l’Inter non è stato amore a prima vista ma quasi. Al primo anno ci fu una mezza rivoluzione. Feci le visite il giorno dopo il 6-0 nel derby, ma quel giorno al Coni trovai Ronaldo e fu uno dei motivi per cui firmai per l’Inter. Era gennaio. L’Inter prima o poi doveva tornare a vincere ed era uno stimolo troppo grande per non accettare. Da gennaio mi concentrai ancora sul Perugia ma pensando anche all’Inter. Volevo vincere trofei, non avvenne il primo anno per colpa nostra, ma ne giocammo altre 37 in cui c’ero quasi sempre. Non potevamo fare nulla anche alla luce di quel che si è verificato. Però io lo scudetto del 2001-02 lo baratterei con altri 2-3 perché non eravamo i più forti e arrivò tanta gente. Nessuno avrebbe scommesso un centesimo su di noi e lo perdemmo invece all’ultimo in maniera assurda. Non sapevamo se avremmo potuto rialzare un trofeo. Nel 2010 c’erano Toldo, Cordoba, Materazzi e Zanetti che il 5 maggio soffrirono tantissimo, ma poi il karma ci ha ridato tutto con gli interessi».

COSA SIGNIFICA VINCENTE – «Dietro la parola vincente c’è la voglia di migliorarsi in allenamento e voler alzare trofei, giocare e vincere le partite importanti. Molti spariscono nelle partite importanti, io invece mi trasformavo la domenica. Lippi marcava la differenza tra fuoriclasse e campione, il fuoriclasse vince anche perché la squadra è forte. Il campione te le fa vincere. Io? Sono fortunato, perché ho giocato con i campioni».

LA SQUADRA DEL TRIPLETE – «Eravamo forti perché chi era arrivato ci aveva trasmesso forza ed era Eto’o. Veniva da un triplete, aveva la mentalità per dire che avremmo vinto. Quando hai loro ti trascinano. Un blocco storico in più, in cui eravamo tutti importanti. Io e Ivan per esempio sapevamo cosa potevamo dare al club. Ne arrivarono poi cinque, dopo la trasferta a Manchester in cui eravamo stati eliminati. Una squadra che non sapevi chi potesse star fuori la domenica. Già piena di campioni e ne aggiungi cinque. Sai che hai l’opportunità di vincere. Anche se nel percorso di tutto l’anno ci sono state delle difficoltà e in Champions a 5′ dalla fine eravamo fuori a Kiev».

IL RISCHIO DI ADDIO ALL’INTER – «Se ho pensato che avrei potuto chiudere con l’Inter è stato quando ho fatto qualche cazzata in campo. Era troppo bello il rapporto con Moratti o Facchetti. A Empoli, quando Adriano fece gol, dopo la partita eravamo in Champions. Era il 2005, dissi a Giacinto che volevo fare il centenario all’Inter. Firmai due anni al minimo perché era il mio desiderio. Non erano i soldi la cosa più importante. il giorno dopo mi chiamò e mi disse di andare a firmare. Per loro era un affare. Ho rischiato di andare via anche prima del Mondiale perché avevo bisogno di giocare. Durante il Mondiale stavo per essere venduto al Villarreal. Poi non lo feci, il contratto era in spagnolo e non capivo niente. Aspettai e dopo 2-3 partite che giocai decisi di rimanere all’Inter».

SUI LEADER – «Il leader non deve mai essere uno solo nel gruppo. All’Inter c’era grande democrazia, tuttora siamo fratelli, c’è rispetto. Quello ti fa crescere il gruppo. In allenamento c’erano tensioni. Anche con Baloteli, l’ho preso a calci nel culo ma ancora oggi mi vuole bene. Non me ne pento perché penso che in quel momento serviva quello per lui e la squadra. I leader devono fare in modo che tutti remino dalla stessa parte. Mario era troppo forte per far sì che si bruciasse. E’ anche per lui se ho fatto certe cose».

L’ADDIO ALL’INTER – «Non ho salutato l’Inter, nel 2010 mi dissero che c’era troppa aspirazione a giocare la domenica. Io chiamai Leonardo e dissi che se dovevo andare senza aspirazione per giocare la domenica stavo a casa coi figli. Mancò qualcosa, in allenamento non c’era più la voglia di vincere anche la partitella. Per una squadra è la cosa più deleteria che possa succedere. Torno a prima: chi gioca meglio alza il livello, sennò anche la domenica giochi ‘piatto’. Per cui a malincuore smisi, l’Inter pagò tutto il contratto come è giusto che sia. Ebbi l’opportunità di andare un’altra in A, per orgoglio potevo anche farlo, o in Mls. L’India arrivò qualche anno dopo. Ma anche lì non giocavo da due anni. Vincemmo le prime, poi perdemmo. Alla quinta mi sono messo anch’io ad allenarmi e ho alzato la tensione in allenamento. Ne vincemmo 3-4 e alla fine vincemmo anche la regular season. L’anno dopo costruii la mia squadra e vincemmo. Era un campionato in cui decidevo tutto, facendo gli interessi del club. Feci il manager, cosa che in Italia è più difficile perché qui i presidenti ti dicono anche chi dovrebbe giocare. E allora ho deciso di non fare l’allenatore, perché avrei dovuto snaturarmi».

LA NAZIONALE – «Con la nazionale è stata un’emozione forte. Il mio obiettivo era giocare la terza gara del Mondiale 2006, da già qualificati, invece la dovetti giocare ed era decisiva. Feci un gol molto importante con la Repubblica Ceca, il mio gol più importante in azzurro. Ci permise di incontrare Australia, Ucraina e non il Brasile… Obiettivamente in finale con la Francia non eravamo forti come loro, ma gli italiani sono sempre scomodi. La rivedo, ogni tanto, rivedo i rigori e ho paura di sbagliare ma so che devo tirare forte come mi dicevano da bambino. Di quella finale mi piace ricordare i due che ho fatto. Riva mi disse che avrebbe barattato tutti i suoi con i miei due…».

IL MIGLIOR DIFENSORE CON CUI GIOCARE – «Cannavaro, con Gattuso davanti alla difesa».

IO UN DURO IN CAMPO? – «Non ci ho mai fatto caso, ogni partita per me era una guerra sportiva. Non faccio vincere nemmeno mia figlia a ping pong. Sono sempre stato un guerriero perché ho dovuto lottare contro i pronostici, contro i ‘maligni’ visto che mio padre faceva il mio stesso mestiere. Ho dovuto remare per far capire che meritavo».

L’EMOZIONE DA NONNO E QUELLA DA PAPA’ – «L’emozione da nonno è totalmente diversa. Non è più forte di quella di essere padre. I figli sono figli. Se li godano loro. Io sono contento di essere nonno, ma i figli sono figli».

IL NUOVO MATERAZZI? – «Bastoni è il nuovo Materazzi».

GLI AMICI NEL CALCIO – «Io ho giocato con tutti i più forti: Totti, Sneijder, Ronaldo, Vieri. Gli amici sono quelli che rispondono subito se chiami. A me rispondono quasi tutti. A Gattuso e Stankovic sono affezionato. Gattuso l’ho cresciuto quando aveva 14 anni, con Stankovic ho dormito quasi più che con mia moglie».

COSA NON RIFAREI? – «Le sciocchezze in campo».

UN VINO PER MOURINHO, LIPPI E MATERAZZI – «Vino per Mou il sassicaia. Lippi il Valentini. Per me champagne».

IL PIU’ FORTE CON CUI HO GIOCATO – «Ronaldo».

LA TOP 11 DEI GIOCATORI DELL’INTER CON CUI HO GIOCATO – «Mi metti in difficoltà. Però diciamo Julio Cesar, Maicon, Chivu, Samuel, Cordoba, Zanetti, Cambiasso, Stankovic, Ronaldo, Figo, Vieri. Io allenatore».

COME VEDO MATERAZZI NEL 2035? – «Qualche altro nipote, spero lo faccia mia figlia perché penso sia differente. E poi felice, girando il mondo».

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