Pippo Marchioro: «Ho dato a Rivera la maglia numero 7 perché l’ha voluta lui. Al Milan ho fallito, ma in provincia ho fatto bene. Ho visto Mussolini a Piazzale Loreto…» | OneFootball

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·24 aprile 2025

Pippo Marchioro: «Ho dato a Rivera la maglia numero 7 perché l’ha voluta lui. Al Milan ho fallito, ma in provincia ho fatto bene. Ho visto Mussolini a Piazzale Loreto…»

Immagine dell'articolo:Pippo Marchioro: «Ho dato a Rivera la maglia numero 7 perché l’ha voluta lui. Al Milan ho fallito, ma in provincia ho fatto bene. Ho visto Mussolini a Piazzale Loreto…»

Le parole di Pippo Marchioro, ex calciatore del Milan: «Il fallimento in rossonero il mio rimpianto, poi però mi sono ripreso, ho ricevuto buone offerte»

Una carriera da allenatore di provincia, con una puntata al Milan che si ricorda più per come non sia andata bene che per altro. Pippo Marchioro racconta la sua vita a La Gazzetta dello Sport con queste parole.

COME STA – «Così così. Fisicamente bene, sono un po’ debole di memoria. Ho 89 anni e ricordo le cose del passato, ma faccio fatica con le recenti. Dicono che alla mia età è normale…».


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COSA RICORDA – «La mia infanzia, la mia gioventù, il mio vecchio dialetto, el milanes. Sono nato ad Affori, allora comune di Milano. Vivevo in una casa de la linghera, casa di ringhiera, in via Cialdini, vicino al Parco di Villa Litta. Ricordo i prati verdi, poi la guerra, i bombardamenti. Ero un bambino vivace, mi piacevano le vicende movimentate. Ricordo bene quando, nel’45, hanno appeso il cadavere di Mussolini e degli altri fascisti al distributore di benzina: avevo 9 anni e io e i miei amici siamo andati di corsa da Affori a Piazzale Loreto. Una bella corsa, fioeu, c’erano i soldati americani che filmavano, la gente era impazzita. Poi siamo venuti via e siamo andati a giocare al calcio sui prati».

NELLE GIOVANILI DEL MILAN SENZA ESORDIRE IN PRIMA SQUADRA – «Ma no. Non ero minga bun, non ero da Milan. E poi avevo dei problemi in famiglia. I miei erano separati, ho conosciuto Liliana, la mia miée, mia moglie, alla Cooperativa Stella di Affori. La famosa osteria di via Zanoli, dell’Unione Operai. C’erano le bocce, si ballava, ci siamo sposati nel 1959 e lei è venuta via con me. Ho giocato in C e in B. Col Catanzaro nel 1966 ho fatto una finale di Coppa Italia, contro la Fiorentina, abbiamo perso a Roma 2-1 dopo i tempi supplementari. Il gol l’ho fatto io. Non una carriera brillante, roba minima. Ma ho sempre lavorato con serietà e coerenza al di là delle categorie. Anche, soprattutto, da allenatore».

HA TOLTO IL 10 A RIVERA – «Non è vero. Nei piani doveva giocare più a destra. È stato lui stesso a chiedere il 7. Mi disse: “Mi piacciono le novità, io non faccio questione di numeri”. Rivera non era mio nemico. Anzi. Fu di una correttezza e di una onestà esemplari. I giocatori non mi hanno fatto la fronda. I problemi erano altri: il gioco cominciava ad esserci, ma quando non si vince…».

IL FALLIMENTO AL MILAN É IL SUO RIMPIANTO – «Sì, poi però mi sono ripreso, ho ricevuto buone offerte, potevo andare alla Roma e al Napoli, ho preferito Cesena. Ho portato la Reggiana in serie A e, nel 1994, mi sono salvato a San Siro, battendo il Milan di Capello. Qualcosa ho fatto».

IL MOMENTO PIU’ TRISTE – «Acamaiore, nella mia casa, nell’agosto del 2013. I banditi sono entrati e ci hanno rapinato. Ero con mia moglie, ci hanno legati e imbavagliati. Volevano la cassaforte, i soldi, gli ori. Non c’era niente. Mi hanno portato via tutte le medaglie del calcio, i ricordi. Anche i bicchieri di argento, regali di Albertosi, Rivera e degli altri giocatori. Purtroppo è successo anche questo, ma io, alla mia età, ho la fortuna di avere poca memoria. E li ho dimenticati».

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