BundesItalia
·29 aprile 2020
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124 presenze in Bundesliga, secondo italiano in assoluto dopo Caligiuri, divise in 6 anni tra due maglie: quelle del Bayer Leverkusen e del Mainz. Giulio Donati ha trascorso gran parte della sua carriera in Germania, dal 2013 al 2019. BundesItalia lo ha intervistato in esclusiva per parlare delle sue stagioni sulle rive del Reno.
Cosa ti ha portato a scegliere la Bundesliga nel 2013, dopo un anno di successo in B al Grosseto e l’Europeo Under 21?
Dopo l’Europeo Under 21 ho avuto diverse offerte, ma il Bayer Leverkusen è un club prestigioso che giocava in Champions League. Poi Rudi Völler ha fatto sì che accettassi, è stato decisivo.
Hai trovato un’altra leggenda in panchina: Sami Hyypiä, uno da 400 presenze col Liverpool.
Mi ha integrato subito, sono stato titolare già dalle prime giornate. Non era facile integrarsi in poco tempo in un gruppo nuovo e in una cultura nuova. La lingua è stato l’aspetto più difficile, Mangia ci aveva introdotto a un calcio più totale.
Che differenze hai riscontrato tra il calcio tedesco e quello italiano?
C’è un minore senso tattico. Ogni volta che mi spingevo in avanti facevo scatti incredibili per recuperare, poi mi han detto “non preoccuparti, ci penserà qualcun altro a difendere”. Lì ho capito la filosofia: attacco e spettacolo. Una squadra non si adatta, l’allenatore cerca di dare un’impronta e portare avanti il suo gioco.
In questo Roger Schmidt, scuola Salisburgo, è maestro: come sono stati gli anni con lui in panchina?
Roger Schmidt cambiò totalmente il nostro stile di gioco, voleva pressing totale ed esagerato. È stato il miglior sistema tattico, a livello di mentalità, che abbia mai avuto da un allenatore. Poi è una persona particolare e magari non è semplicissimo rapportarsi con lui, ma a livello di stile di gioco è stato uno dei più innovativi.
Fuori dal campo invece come è stato l’ambientamento in Germania?
Vivevo a Colonia. Leverkusen è una città piccola con poche cose da fare oltre il calcio. Per la mia compagna trasferirsi in un ambiente nuovo era difficile, a Colonia c’era di più. Preferivo cucinare io a casa perché, per un italiano, mangiare nei ristoranti non è facile.
Di certo non è stato difficile in campo, con tutti i giocatori fenomenali con cui hai giocato: Brandt, Son, Kießling…
Brandt esplose nella seconda metà di stagione nel mio primo anno. Son è stato uno dei professionisti più esemplari con cui mi sono allenato, ci chiedeva sempre di fermarci per passargli la palla, lui calciava di destro e sinistro. Un grandissimo giocatore. Kießling è una leggenda, in quegli anni c’erano anche Rolfes e Spahic al picco della loro carriera.
Poi dopo due anni e mezzo hai scelto il Mainz, dove sei rimasto tre anni e mezzo. Che ambiente hai trovato?
È un ambiente positivo fatto di belle persone. Mi colpì la forza con cui mi richiesero al Leverkusen: mi vennero a parlare il mister e il direttore sportivo in aeroporto, mi proposero un contratto importante di durata e di ingaggio. Mi sentii molto in dovere di contraccambiare. Vivemmo subito momenti positivi con l’Europa League, poi di anno in anno la fiducia è cresciuta.
Come spiegherebbe Giulio Donati a un tifoso di calcio italiano la crescita di una realtà come quella del Mainz, con uno stadio all’avanguardia, tanti tifosi e obiettivi sportivi di prestigio?
Quando mi chiedono di Mainz, la rapporto sempre a Pavia rispetto a Milano: una piccola città vicino a un grande centro come Francoforte. La società è arrivata dov’è grazie all’ambizione e all’organizzazione. A volte chiedono cose assurde ai calciatori, come ad esempio essere a eventi di marketing la sera nei supermercati. Anche fuori dal campo di gioco l’immagine è molto importante. Funziona tutto, quindi ci sono più introiti, più tifosi, più aspettative e il club si migliora progressivamente. Anche il centro sportivo è migliorato di anno in anno.
L’Europa League l’hai raggiunta con un altro Schmidt, Martin. Un altro personaggio particolare.
Aveva un’idea diversa di calcio, ma il suo punto forte è il suo lato personale. Con noi non faceva pazzie tipo sveglia alle 5 e corsa nei ritiri, però i miei compagni mi raccontarono che, durante il ritiro invernale, li portò a fare una camminata sulla neve, poi sono rimasti accampati nelle tende con i sacchi a pelo. Era una persona stravagante.
Uno de tuoi compagni è stato JP Mateta, che nell’ultima sessione di mercato è stato accostato al Napoli. È uno che ruba l’occhio…
Mateta ha grande fisicità, è molto scaltro e sta migliorando anche dal punto di vista tecnico nella finalizzazione. È un giocatore giovane e ambizioso, mi chiamò a gennaio quando ci fu quest’interesse del Napoli per sapere qualcosa della realtà partenopea. Il Mainz poi non lo lasciò credo per le richieste troppo alte. È un giocatore di grande prospettiva.
Come lui, molti altri giovani in Bundesliga riescono ad esplodere. Quali sono i principali fattori che rendono il calcio tedesco un calcio ‘giovane’?
C’è molta meno pressione, un giovane è più libero di esprimersi e sbagliare, com’è giusto che sia. Visto che anche il veterano commette degli errori, perché non farli commettere anche a un giovane? In più si allenano stabilmente con la prima squadra e non sporadicamente come in Italia. Così alcuni arrivano già a 20 anni con 50-60 presenze in Bundesliga.
Nei tuoi 6 anni sei anche riuscito a ottenere risultati contro il super Bayern di Guardiola.
Nel mio primo anno al Leverkusen, a inizio ottobre affrontammo il Bayern di Guardiola in casa. Pareggiammo 1-1, rischiando anche di vincerla all’ultimo minuto. Con il Mainz vincemmo 1-2 all’Allianz Arena. Quell’anno riuscimmo anche a qualificarci in Europa League. Fu una grandissima emozione.
Risposte secche sulla tua esperienza tedesca. Prima: l’avversario più forte che hai affrontato.
Ribéry, è difficilissimo da marcare, è rapido, fantasioso, tecnico, supportato da Alaba che quando creava superiorità ti dava pensieri anche lui.
La squadra più forte in assoluto.
Tante. Ma quando abbiamo affrontato il PSG in Champions League con Ibra e molti altri fu veramente tosta.
Il momento più bello.
L’esordio all’Old Trafford in Champions League col Bayer Leverkusen. Anche il goal contro lo Zenit è stato bellissimo, anche perché arrivavo da un momento difficile, però l’esordio in uno stadio del genere non si cancellerà mai.
Lo stadio più bello in cui hai giocato.
Magari alcuni saranno straniti, ma lo stadio più bello è la Veltins-Arena di Gelsenkirchen. Sì, il muro giallo di Dortmund si sente, ma quando subivamo goal dallo Schalke veniva giù tutto, un boato incredibile.
Ringraziamo Giulio Donati e l’ufficio stampa dell’US Lecce per la disponibilità dimostrata.
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