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·12 de maio de 2025

Castan: “In quell’Empoli-Roma è morta una parte di me”

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Leandro Castan, ex difensore della Roma ai tempi di Rudi Garcia in panchina, ha rilasciato una lunga intervista al sito dell’esperto di calciomercato gianlucadimarzio.com ed ha attraversato diverse tappe della sua carriera in giallorosso. Ecco le sue dichiarazioni.

13 settembre 2014. Empoli-Roma. Quel giorno è finita la mia carriera. Quel giorno è morta una parte di Leandro Castan.


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“Tutto bene?”, mi chiese Maicon. Durante il riscaldamento sentii un fastidio al flessore. “Leandro non sta bene”, disse a Rudi Garcia all’intervallo. Cambio. Esce Leandro Castan. Cala il sipario. Per sempre. Torno a casa e inizio a non stare bene. Passa la notte, mi sveglio. La mia testa gira, gira forte. “Cosa mi sta succedendo? Sto morendo?”. Andai in ospedale. Mi fecero una risonanza magnetica. Guardai il dottore della Roma. Era preoccupato. “Cosa mi avete trovato?”. “Niente, vai a casa. Ti chiamo dopo”. “Dimmi cos’ho”. Ero nervoso. “C’è qualcosa al cervello”.

“Mentre stavo tornando, chiamarono per dirmi di tornare in ospedale. Non capivo più nulla. Mai avrei pensato di poter vivere qualcosa di simile. I primi 15 giorni furono terribili. Non mi reggevo in piedi, vomitavo molto, persi 20 kg. Ero senza forze. All’inizio la Roma scelse di nascondere tutto. Decisi di isolarmi. Tolsi i social. Ma un giorno guardai il telefono. Su Twitter mi uscì un articolo. “Leandro Castan ha un tumore, potrebbe morire”. La paura mi invase. Io non sapevo ancora cosa avessi. Nessuno mi aveva detto niente. Né il club, né i dottori. Nessuno. “Stai calmo”, mi ripetevano. Poi quel pensiero: mio nonno era morto per un cancro al cervello. “Sarà così anche per me”.

Hai un cavernoma cerebrale. Non potrai più giocare a calcio”. Buio. “È la fine”. La testa va, non si ferma. Mi chiamarono in clinica e mi dissero tutto. “Al terzo mese della gravidanza il tuo cervello si è sviluppato in modo non corretto. Se prendi una botta durante una partita ti potrebbe partire un’emorragia cerebrale e potresti morire. O smetti o ti operi”. Mi avrebbero dovuto aprire la testa. Un intervento molto pericoloso. “No, non lo faccio”.

Dentro di me c’era la convinzione di non operarmi e di dire addio al calcio. Poi un giorno, guardando una partita, cambiò tutto. “Non posso smettere”. Chiamai mia moglie per dirglielo. Poi sentii il dottore. “Va bene Leo, passa il Natale con la famiglia e poi ti operiamo”. “No dottore, devo farlo subito”. Dopo una settimana feci l’intervento. Ero uno dei difensori più forti della Serie A. Volevo vincere il campionato con la Roma e conquistare la Nazionale. In poco tempo mi ritrovai su un letto d’ospedale con un tumore in testa. Dovevo imparare a vivere di nuovo. Vivere una vita diversa e combattere con un malessere che piano piano nasceva in me. Ho fatto di tutto per tornare al mio livello. Tutto. Non è stato possibile. Ma sono ancora qui.”

Da quando mi è stato diagnosticato il tumore il primo pensiero è sempre stato uno: rimanere vivo. Per i miei figli e mia moglie. Non mi sono mai sfogato a casa. Volevo farmi vedere forte e tranquillo. Ma ero esausto e distrutto. In me c’era solo disperazione. Nella mia testa i pensieri continuavano a scorrere. Incessanti. L’incertezza e la paura erano le mie compagne di stanza. “Cosa ne sarà di me?”. Ero nel momento migliore della mia carriera. “Perché io?”. Il Signore però mi ha aiutato. Nello stesso giorno in cui in clinica mi dissero che non avrei più potuto giocare a calcio, mia moglie mi disse che era incinta. Mi ha dato la forza per andare avanti. È arrivata Raffaella. Sapete cosa significa il suo nome? “Dio cura”. Mi ha curato. Ci ha curato.

Mi sono affidato ancor di più a Dio. Sapevo che era al mio fianco. Senza la fede non so se ce l’avrei fatta. Se ricordo l’intervento? Sì. Il giorno prima mi presentai a sorpresa a Trigoria. “Oggi mi alleno”. “Ma sei pazzo? Domani ti devono aprire la testa”. “Può essere l’ultimo allenamento della mia vita. Voglio stare con la squadra. Ne ho bisogno”. Lasciarono che lo facessi con loro. Poi è arrivato quel giorno. Ero su un letto d’ospedale. Vedevo la preoccupazione sulla faccia dei miei familiari. Entro in sala operatoria. Passano delle ore, gli occhi si aprono. Sono vivo. “Hanno tolto il tumore?”, chiesi subito a mia moglie. “L’operazione è andata bene”. Scoppiò a piangere. Respiravo ancora.

La mia vita era cambiata. Anche nella quotidianità. All’inizio faticavo a prendere un bicchiere su un tavolo. O se mi guardavo i piedi non riuscivo a muoverli. Il tumore intaccava una parte del cervello che riguardava l’equilibrio e il senso della posizione. Ma il vero problema non fu la quotidianità, ma il calcio. Ricordo il primo allenamento che feci dopo l’operazione. Tornai a casa piangendo. I preparatori mi passarono la palla. Io guardai il mio piede e il pallone. Volevo stopparlo con la suola, come piaceva a me. Mi passò tra le gambe, il piede rimase fermo. “Non riuscirò mai a tornare a giocare a calcio”. Non avevo il controllo del mio corpo. Terribile.

Volevo tornare a essere quello di prima, non accettavo di non poterlo fare. Questo mi ammazzava. Io volevo essere il Leandro Castan che aveva lavorato per vincere lo scudetto e giocare in Nazionale. Non riuscirsi mi uccideva, stavo male. Ero arrabbiato. Arrabbiato con me stesso, con chi mi era vicino, con il mondo. Quando sei immerso in quel malessere non sei lucido. Tutto sembra contro di te. Ero nervoso. Per esempio con Rudi che non mi faceva giocare. Non capivo la sua scelta, ora comprendo che mi stava proteggendo. Un giorno litigai con Dzeko e con Keita. Non ero tranquillo. Loro erano persone d’oro e mi capirono. Non era semplice per loro gestire un ragazzo nella mia situazione. Ma non lo comprendevo, ero sommerso nel mio malessere. Era tutto buio. Perché proprio io?

E poi c’erano gli sguardi di chi mi stava vicino. Li percepivo, li vedevo, li sentivo. Mi percepivano come qualcuno di diverso da loro. Mi trattavano come un malato. C’era un senso di compassione e protezione nei loro occhi. Ma io stavo bene. Un giorno Paredes calciò e mi colpì in testa. Tutti corsero da me preoccupati. “Ma che pensate? Pensate che sono ancora malato?”. Piangevo. Piangevo spesso mentre tornavo a casa. Per quegli sguardi, per non accettare la mia situazione, per l’idea che non sarei più tornato a essere… me stesso. Mi fece male anche quella volta a Verona. In panchina c’era Spalletti. Mi chiamò nel suo ufficio. “Voglio che torni a essere il vecchio Leandro Castan. Come facciamo?”. “Ho bisogno di giocare”. “Te la senti di farlo la prossima contro l’Hellas?”. “Sì, ma ho bisogno di qualche partita”. “Tranquillo”.

Giocai male. Subito dopo la partita mi fece vedere il suo computer. C’era un’immagine del Frosinone: “Il tuo livello è questo, non puoi giocare qui”. “Ok, ma io da Roma non vado via”. “Fai come vuoi. Tu con me non giochi più”. Mi crollò tutto addosso. Feci solo panchine. Dopo qualche mese andai in prestito al Torino. Lì incontrai Mihajlović… mi vengono i brividi a parlarne. Alla fine di ogni allenamento si fermava con me per insegnarmi a calciare. Passavamo le ore insieme. Lo porterò sempre nel cuore. Poi sono tornato a Roma, fino alla risoluzione. Quello fu un punto definitivo. “Non sarai mai più quel Leandro”. Il giorno più triste nella mia storia con la Roma. Dovevo dirle addio. Dovevo ammettere a me stesso che era davvero finita. Era stato tutto un’illusione. Fino a quando ho avuto un contratto con la Roma, in me c’era la speranza di tornare a giocare con quella maglia. “Non puoi più giocare qua”. Tornai a casa e mi misi sulla scala di casa a fissare il vuoto. Leandro, addio.

“La Roma vuole Leandro Castan”. Iniziai a piangere. “Ma com’è possibile?”. Chiamai mio padre. Lui non mi diceva nulla, voleva lasciarmi tranquillo. “Sì, è vero”. Parlai anche con Sabatini al telefono. A lui dirò sempre grazie, mi ha trattato come un figlio. Il periodo più bello fu con Rudi Garcia. Arrivò dopo la delusione della Coppa Italia persa. Per me ha fatto tantissimo. Come giocatore e come persona. E pensare che durante il primo allenamento litigammo pesantemente. “Quel giorno ho capito che eri un uomo su cui avrei potuto contare”, mi rivelò poi. Vincemmo le prime 10 giornate di Serie A. Mi fa male ancora oggi non aver vinto quel campionato. “Leandro, complimenti per questa stagione. Sei uno dei giocatori più forti con cui ho giocato. L’anno prossimo c’è un campionato da vincere”. Mi arrivò questo messaggio di De Rossi. Un orgoglio. Ero sicuro: volevo vincere la Serie A e conquistare la Nazionale. Il destino ha voluto altro.”

“Per anni non sono mai riuscito a fare pace con me stesso. Qualcosa è cambiato dopo aver parlato con una psicologa. “Qual è il tuo sogno Leandro?”. “Fare almeno una partita al mio livello”. “Non potrai farlo, mai più. Ora sei un nuovo Leandro, lascia andare quello passato”. Lascia andare. Quelle parole mi aiutarono a voltare pagina. Le sue e quelle di un pastore: “Un uomo senza sogno è un uomo morto”. Mi fece riflettere. “Ma che sogno ho adesso? Non posso più tornare indietro. Devo andare avanti”. Da quel momento la mia visione è cambiata. La mia storia con il calcio non era e non è finita. Ho ancora tanto da dare. Un punto definitivo su quello che è successo non sono mai riuscito a metterlo. Lo accetto, ma non del tutto. Mi ha fatto troppo male.”

“Ora sto facendo il corso da allenatore. Mi piace stare in campo, sentire l’odore dell’erba, entrare in contatto con i ragazzi. Non è ancora finito il mio momento. C’è un’altra vita nel calcio per Leandro Castan. Continuo a sognare. Se un uomo senza sogni è un uomo morto, io sono vivo. Vivo davvero. E posso dirmi di aver vinto questa sfida. Solo io so quello che ho passato. Paure, dubbi, caos. Ora sono qua in Brasile, ho una famiglia, vedo crescere i miei figli. A volte mi chiedono della mia storia. Tra qualche mese li porterò a Roma. In quelle strade dirò loro chi è stato il loro papà. Un bambino di Jaù che ce l’ha fatta. Nonostante tutto.”

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