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·20 de novembro de 2025

Del Cielo e della Notte - Voci a San Siro

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Nessuno lo nomina esplicitamente all’inizio, ma dopo un po’ arriva a dare sapore a tutte le conversazioni, come fosse una spezia. Nella città della fashion week, della design week, della music week (in corso, poi ci torneremo), siamo in piena derby week.

Nella città degli anglicismi, spesso e volentieri inventati (provate a chiedere di una Location oltremanica, vi prenderanno per matto), le vibrazioni, pardon le vibes, come dicono i cantanti di oggi, sono differenti.


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La notte prima non ci dormi, questo è sicuro. Più il calcio d’inizio si avvicina più provi a controllare la tensione, fino ad arrivare al matchday, pardon, giorno partita, che per buona parte della città assume routine fantozziane. Vestiti allo stesso modo, pranzo allo stesso posto con lo stesso menu, vedendo gli stessi amici alla stessa ora. Cerchi di controllare ogni minuto che si avvicina, perché lo sai che poi saranno quei novanta minuti a controllare te. Il tuo umore per la settimana dopo, almeno, le conversazioni alla macchinetta del caffè, le chat del tuo smartphone, la delicatezza con cui chi ti vuole bene davvero ti approccerà post partita. Il derby a Milano vale una stagione, ma non in sè. Vale una stagione perché è l’unico, in Italia a non solo, che è valso Scudetti, finali di Champions, Coppe, Supercoppe. Una finestra aperta su tutto il resto del mondo, come la città.

È anche l’unico al mondo, o giù di lì, dove i tifosi si trovano assieme prima e dopo la partita e la composizione cromatica dello stadio, curve a parte, è a macchia di leopardo. Impensabile ad altre latitudini, possibile nella più europea delle città italiane e la più italiana delle città europee. Questo non stempera affatto la rivalità, se possibile anzi la inasprisce ancora di più. Chi è in casa conta relativamente. Si sono visti 5-1 e 0-4, 2-4 e 0-6.

Milano non può che guardare avanti, e il calcio non fa eccezione. Il derby più importante? Facilissimo. Il prossimo. E il prossimo è quello di domenica sera

Siamo proprio lì, a 108,5 metri da terra, sul tetto della Madonnina, che se la vedete ondeggiare in questi giorni è perché la Music Week. Per raccontare il derby scegliamo un disco agé, di inizio duemila. Mi Fist dei Club Dogo è una delle pietre miliari del rap italiano e uno dei dischi più milanesi di sempre. Assieme al resto, racconta di una città che sta cambiando in fretta, rimodulando i propri spazi, dove le piazze e i grandi spazi stanno per riempirsi e contemporaneamente svuotarsi, inglobati dai social network dove tutto è ovunque, e a Milano è ovunque un po’ di più.

Milano è l’unica città assieme a Manchester ad aver vinto la Champions League con due squadre diverse, l’unica ad averlo fatto a cinquant’anni o quasi di distanza. All’inizio erano gli anni sessanta: 1963 e 1969, il Milan alza al cielo due volte la Coppa Campioni.

L’allenatore? Sempre quello. Nereo Rocco, per tutti il Paron, inventore di un certo qual calcio all’italiana, o pane e salame, e formidabile battutista. Che vinca il migliore? Speremo de no, la fulminea risposta in dialetto a un cronista che gli augurava buona fortuna prima di un match. Degnissimo avversario come allenatore era Helenio Herrera, inventore probabilmente dell’allenatore come figura carismatica, magnetica, quasi messianica. Cartelli negli spogliatoi, interviste provocatorie nel bel mezzo degli allenamenti, gestione in prima persona di tutto quello che c’è attorno alla squadra. Le Coppe dei Campioni? Due anche qui, con la beffa di una finale persa. E come battutista? Anche qui valeva almeno Nereo Rocco. Chi non da tutto, non da niente. Come direbbe qualcuno a Milano, frase da tatuaggetto.

Ancelotti e Mourinho, nel nuovo secolo, si sono mossi abilmente in quel solco, tornando ad alzare la Coppa al cielo del Naviglio.

Milano d’Europa, mai come allora. Le panchine da sempre scottano e contano. Non farà eccezione domenica sera. E se per Allegri il derby è qualcosa di iniziato bene ma proseguito molto peggio (ha vinto i primi tre e poi fatto un punto nelle quattro partite successive) per Chivu è qualcosa di ben presente. Il primo derby non si scorda mai, e chissà se nell’addormentarsi sabato sera il tecnico interista si ricorderà del 23 dicembre 2007.

Qualche mese prima i Club Dogo hanno pubblicato Vile denaro, che ancora una volta fotografa bene la città e forse anche le due squadre, in quel momento decise a contendersi la supremazia a colpi di milioni anche sul mercato.

Inter e Milan si trovano di fronte a due giorni da Natale e la prima cosa che fanno gli interisti è… battere le mani. L’applauso è infatti per i cugini, che qualche giorno prima sono stati incoronati campioni del mondo. I nerazzurri concedono loro il pasillo de honor, tradizione mutuata dalla Spagna in cui si omaggiano i rivali vincitori di un grande traguardo. Il derby di Milano è sempre stato questo, uno slancio a superarsi a vicenda: i trofei altrui sono benzina per i rivali. Non fa eccezione quell’Inter e quel derby, dove i campioni d’Italia sfidarono i campioni d’Europa e del Mondo. Bravi voi: adesso però vi facciamo capire chi comanda davvero, più o meno il messaggio interista. Eppure a passare è il Milan, con una magia di Andrea Pirlo su calcio di punizione. Di lì però l’Inter va a testa bassa: pareggio di Julio Cruz, su cui poi torneremo, e gol di Esteban Cambiasso con decisivo contributo di Dida. E Cristian Chivu? Giocava a centrocampo. Con Cambiasso, Zanetti e il cileno Luis Jimenez, trequartista d’assalto dalla carriera non indimenticabile ma fondamentale per qualche mese in quell’Inter che vinse un altro Scudetto. Tanti sette in pagella per il romeno, che a centrocampo di solito ci giocava in nazionale.

Dicevamo del pari di Cruz. Un gol di rabbia più che di tecnica, in cui Julio attorniato da una selva di gambe rossonere ha la lucidità di caricare un siluro di mancino, tenere basso il pallone e trafiggere Dida, cambiando così l’inerzia del match. Già perché al derby più che mai conta la corrente, l’adrenalina di un gol può cambiare il mondo. E gli attaccanti lo sanno, e devono andarselo a prendere di prepotenza. Inter-Milan è affare per attaccanti veri. Meglio se, come nel caso di Cruz, arrivano dall’Argentina. E argentini sono i cinque gol che vogliamo raccontarvi.

Hernan Crespo aprì le danze nell’ottobre del 2006, in uno dei derby più spettacolari di sempre, per nomi dei marcatori e qualità delle due squadre. Punizione di Stankovic, palla sul secondo palo, colpo di testa implacabile

Rodrigo Palacio ne firmò uno d’autore, curiosamente sempre all’antivigilia di Natale, nel 2013. Il gol di tacco a due minuti dalla fine resta una chicca per esteti. Magari Inter e Milan non erano nel loro punto più alto della storia (finirono rispettivamente quinta e ottava), ma il derby resta sempre il derby.

Mauro Icardi si levò due sfizi mica da ridere: una tripletta, tre gol per andare tre volte in vantaggio, la terza definitiva, e un gol in pieno recupero, su un cross di Vecino e complice un’uscita a vuoto di Gigio Donnarumma. San Siro, pazzo di gioia si fece sentire.

Gli argentini con la A maiuscola sono due però parlando di derby di Milano. Uno è Diego Milito, che nei derby è andato a segno sei volte. Quattro di queste nel 2011-2012. La gara di andata in particolare è il simbolo di cosa può essere a volte un derby. Forse non vinco io, ma di sicuro non vincerai tu. L’Inter in quella stagione finisce a meno ventidue dal Milan, ma i derby li porta a casa entrambi. Nell’andata il Milan preme e fa la partita, ma passa l’Inter. Passaggio di Zanetti, errore di Abate e semaforo verde per Milito, che avanza, conta i passi e rilascia un beffardo diagonale che bacia il palo e finisce il rete. Il principe poi esulta assieme ad un uomo misterioso, completamente fasciato dagli indumenti. Chi è? La risposta nel prossimo episodio…

Il secondo argentino ad essere sinonimo di derby è Lautaro Martinez, con nove gol all’attivo largamente il marcatore numero uno in attività. Il migliore dei nove? Nessun dubbio, quello che valse un volo per Istanbul. Quello stranissimo balletto del pallone tra Lukaku e Lautaro, con Gosens terzo incomodo incerto sul da farsi, che venne rapidamente interrotto dalla cannonata del numero dieci nerazzurro sul primo palo. Il rumore che seguì fu uno dei più intensi mai sentiti nella nostra vita.

No, non ci siamo dimenticati della vostra rubrica preferita. L’Interista che non ti ricordi.

Di solito un gol nel derby vale l’immortalità calcistica o quasi, ma c’è chi non se lo ricorda e in fondo sono passati anni.

La carriera è ancora in corso, è rientrato al momento dal prestito al Dubai City, squadra numero diciassette. Siamo lontani dal Loco Abreu con venticinque squadre, ma non troppo lontani. A trentasei anni Ezequiel Schelotto ha realizzato venticinque gol, fonte Wikipedia, ma solo a uno pensa ogni giorno. "Me lo sono tatuato il giorno dopo", ha detto candidamente alla Gazzetta dello Sport qualche giorno fa. E ha fatto bene. Perché per l’Inter quel giorno c’erano tutte le premesse per perdere. Una squadra sfiduciata, in crisi di risultati, che il mercato di gennaio non aveva rivitalizzato. E a gennaio era arrivato tra gli altri proprio Ezequiel Schelotto, argentino di ovvie origini italiane, che fin lì non aveva convinto granché. Pronti via e il Milan fa la partita e passa dopo venti minuti, bel gol di El Shaarawy. La partita poi diventa una specie di affare privato tra Mario Balotelli, desideroso a ogni costo di segnare il tanto agognato gol dell’ex, e Samir Handanovic, sorta di nemesi del rossonero, che gliele prende tutte. Stramaccioni cambia modulo e leva un centrocampista mettendo un esterno. Nello specifico, fuori Cambiasso e dentro Schelotto. Qualcuno pensa a una resa, diventa la mossa del match. Al primo pallone toccato Schelotto, buttandosi in area con l’incoscienza dei novizi, pareggia il match su cross di Yuto Nagatomo. Nel recupero quasi ne segna un altro su cross di Cassano. Troppo, avranno pensato gli dei del calcio, non esageriamo. E andò bene così. Perché a volte se non puoi vincere va bene anche che non vincano gli altri. Erano altri tempi, oggi il derby di Milano vale di più. Fine novembre, presto per una sentenza definitiva sulla stagione, abbastanza in tempo per uno statement importante. Soprattutto, sugli avversari.

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