Kickest
·29 de outubro de 2025
L’altra partita degli allenatori del nostro campionato

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Nel dibattito calcistico italiano, da sempre fedele alla polemica e in cui le parole pronunciate al di fuori del terreno di gioco fanno più rumore delle gesta sul campo, la comunicazione degli allenatori di Serie A è diventata a tutti gli effetti atto e strumento politico, manifesto programmatico del rispettivo modo di intendere il calcio e parte integrante dei metodi di gestione del gruppo.
Dichiarazioni costruite a regola d’arte, allusioni più o meno esplicite, pressioni strumentalmente addossate da una parte all’altra: sono le armi retoriche con cui molti allenatori, ognuno con la sua strategia, il suo pubblico e suoi obiettivi, provano – e a volte riescono, con conseguenze contrastanti – ad influenzare dall’esterno gli eventi che avvengono sul rettangolo verde e nello spogliatoio, sfruttando a proprio vantaggio la morbosità con cui i media raccontano tutto ciò che succede intorno alla partita, in un meccanismo che va ben oltre i 90’ di gioco.
Antonio Conte è il demagogo per eccellenza. La sua capacità di influire sugli eventi si estende oltre le variabili strettamente tattiche: il siparietto con Lautaro – magistralmente ordito – con cui fa uscire l’Inter dalla partita, è solo l’ultima trovata extra-campo per tirare acqua al proprio mulino. Davanti ai microfoni, il suo copione è sempre lo stesso: enfasi su quanto gli altri siano più attrezzati, necessità di tempo e lavoro per inserire i nuovi, sottolineatura delle difficoltà. Per molti retorica insopportabile, per altri sapiente manipolazione dei media per compattare il gruppo dietro la sua personalità, liberandolo dalle pressioni. Strategia che, almeno in territorio nazionale, gli ha sempre dato frutti.
Voce fuori dal coro, Cristian Chivu, che in queste prime giornate si sta rivelando un esempio di corretta comunicazione: sempre trasparente, lontano dalle polemiche e concentrato sulle responsabilità della squadra, anteponendo i meriti dei suoi e il bene della società alla sua figura. Una linea diplomatica comoda da sostenere quando si vince, ma che il tecnico rumeno ha mantenuto con coerenza anche dopo la sconfitta di Napoli. Aria fresca, in un calcio sempre più egoriferito e fatto di personaggi.“Io sto cercando di cambiare le cose ma per ora lotto da solo, siamo sempre abituati a piangere e lamentarci e dobbiamo evolverci. Finché sarò qui farò questo, non mi interessa cosa pensano gli altri di me“. Aria fresca, in un calcio sempre più egoriferito e fatto di personaggi.
Le sue conferenze stampa sono imperdibili eventi di arte performativa: Max Allegri davanti ai microfoni è un’artista. Risponde ma non risponde, a domande pone altre domande, semplifica le situazioni ma spariglia le carte, fornisce esempi folkloristici che distolgono l’attenzione, il tutto con la sua immancabile poker face. Il suo è un disegno molto chiaro: erigere una diga a difesa della squadra, mantenendo un clima positivo di serenità e fiducia attorno al gruppo e respingendo la pressione. Non farà mai drammi rispetto ad assenze o carenze sul mercato, piuttosto richiamerà i suoi a raccolta stanziando un’ipotetica soglia punti per l’arrivo in Champions.

Per il Gasp tanto bastone e poca carota: è sempre stato così, oltrepassando spesso i limiti con attacchi diretti ai propri giocatori. Una comunicazione rigida e a tratti rude, parte di un personaggio burbero ma efficace, che ha portato al tecnico giallorosso diverse antipatie. Se ai tempi dell’Atalanta riusciva a scuotere i suoi attaccanti con affronti di natura quasi personale, recapitati tramite la stampa – a cui puntualmente i vari Muriel, Zapata, Lookman, Scamacca rispondevano con reti e prestazioni -, per ora non sta sortendo gli stessi effetti con le personalità più fragili di Dovbyk (entrato bene contro il Sassuolo) e Ferguson, pungolati (per usare un eufemismo) a più riprese nelle ultime settimane in maniera quasi inopportuna, per quanto fondata.
Ci sono anche esempi di come una cattiva comunicazione possa acuire ulteriormente situazioni già difficili. La confusione di Igor Tudor, ormai ex allenatore della Juventus, si è riflessa vicendevolmente dai microfoni al campo. Dalle lamentele per il calendario alla 4^ giornata, al cambio di Yildiz contro il Milan giustificato come “tentativo di dare un segnale alla squadra”, la lista di messaggi rivedibili è lunga e ha finito per minare un contesto già fragile. Il tentativo di ricondurre ad errori individuali una serie di problemi strutturali – in cui la società ha le sue grandi responsabilità – è l’ultima spiaggia di un uomo lasciato solo, che continua a difendere sé stesso e le sue posizioni, dividendo la responsabilità della terza sconfitta di fila e della quarta gara senza gol con i giocatori, ma che afferma fino alla fine che del suo futuro non gliene importi niente.









































