Un super portiere (quasi) per caso, Angelo Peruzzi si racconta: “A 10 anni fui messo fra i pali perché ero l’unico che toccava la traversa” | OneFootball

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·22 August 2025

Un super portiere (quasi) per caso, Angelo Peruzzi si racconta: “A 10 anni fui messo fra i pali perché ero l’unico che toccava la traversa”

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Le radici, le origini, il pallone come filo conduttore di una vita da fuoriclasse. Non dite però ad Angelo Peruzzi che è stato uno dei portieri più forti della storia, perché quasi se ne imbarazza: “Non mi è mai fregato nulla di essere bravo o meno, mi interessava solo far bene e mi dispiacevo tantissimo quando sbagliavo”. Questa frase descrive perfettamente il carattere dell’ex numero uno di Roma, Juventus, Inter e Lazio che - intervistato su Vivo Azzurro TV - vive oggi nel suo paese natale, a Blera in provincia di Viterbo, a contatto con la natura. “Ho lasciato il mondo del calcio e non me ne pento. Sto bene così come sto, senza la frenesia di dover rientrare. Mi basta quello che ho, vivendo con le cose più semplici, godendomi di più la famiglia e facendo ciò che voglio. Vivo ancora a Blera, ma fuori dal paese, immerso nella natura. Mi piace l’orto, zappare la terra: cose semplici che mi danno gioie”. Non c’è da sorprendersi, perché anche con una vita da calciatore come quella di Peruzzi, il richiamo delle origini è troppo forte: “Blera l’ho amata, la amo e la amerò sempre - racconta -. È il mio paese nativo, ci sono sempre stato: quando giocavo fuori, come potevo tornavo perché c’erano la mia famiglia, i miei amici e i miei affetti più cari. È sempre stato al centro della mia vita e continuo a starci anche ora, mia moglie è di Blera e non cambierei tutto questo con nient’altro”.

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GLI INIZI. La mamma lavorava in un forno, si alzava alle 4 di mattina, il papà faceva il muratore e Angelo insieme a sua sorella, prima di andare a scuola la mattina sbrigava le faccende di casa. A 10 anni, però, arriva la sliding door. “Dovevamo giocare una partita di scuola, il classico sezione A contro sezione B. A quel tempo non c’erano ruoli definiti, così la maestra ci fece saltare dentro la porta per vedere chi riusciva a toccare la traversa: lo feci e venni così messo a parare. Da lì in poi, un po’ alla volta, la cosa mi piacque, anche perché le doti da numero 10 non è che fossero chissà cosa” sorride Tyson Peruzzi. Un soprannome che gli venne dato da Nils Liedholm, che vide in Peruzzi quel talento che poi negli anni lo portò a essere effettivamente uno dei portieri più forti al mondo. “Ma quel soprannome non è che mi piacesse poi così tanto. Liedholm però era una grandissima persona, davvero eccezionale e con una simpatia stranissima: faceva delle battute essendo serio e non sapevi mai se dovevi ridere o meno. Per la mia carriera è stato fondamentale: oltre a farmi esordire, quando avevo 17 anni volle che restassi a fare il secondo portiere della Roma, anche se prima si usava mandare i giovani a farsi le ossa in Serie B. Invece ebbe in me una fiducia enorme. Parlava poco, però ti faceva capire molte cose. Era simpaticissimo e molto affettuoso”.


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BONIPERTI. La Roma scopre Peruzzi ad appena 13 anni. Angelo si trasferisce nella Capitale andando a vivere in un pensionato con altri 5-6 giovani nella stessa casa. “L’impatto fu durissimo. Ero spaesato dalla città e ricordo che, dopo essere stato accompagnato il primo giorno dai miei, aspettai il tempo tecnico del loro ritorno a Blera per andare in una cabina telefonica a telefonargli. Piangevo e dicevo loro di venirmi a riprendere. Poi, però, dopo qualche giorno mi abituai e da lì cominciò tutto”. Se la Roma è stata la prima a credere in Peruzzi, è con la Juventus che arriva la consacrazione: “Ero squalificato per la storia del Lipopil, la più grande ‘cavolata’ che io abbia mai fatto e per la quale ho giustamente pagato. Era stata fatta con totale ingenuità, non avevo intenzione di modificare le mie prestazioni, ma pensavo che mi aiutasse a non farmi infortunare. Mi chiamò Montezemolo, prospettandomi di andare a Torino, poi però a fine stagione sia lui che Maifredi lasciarono la Juve. Così fu Boniperti a chiamarmi. Quando andai a firmare il contratto la cifra era la metà della metà di quanto avrei mai pensato, ma lui fu diretto e schietto: ‘firma subito’ mi disse e io non ebbi il coraggio di fare altro. Boniperti era molto affabile, aveva i suoi modi e il suo caratterino, ma è stato molto bravo”.

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LA NAZIONALE. Gli anni con la Juve gli regalano la Champions League vinta a Roma contro l’Ajax “sbagliai sul gol degli olandesi, ma mi riscattai parando due rigori”, e soprattutto la Nazionale, con la quale ci sono stati alti e bassi. “Rimasi deluso dalla non convocazione di Sacchi ai Mondiali del ’94, ma dopo mi chiamò e giocai parecchio. È stato un allenatore che ha cambiato il calcio, perché in Italia certe cose e certe metodologie non esistevano. Viveva solo per quello, è stato importantissimo per l’Italia e la Nazionale”. Alla vigilia della partenza per il Mondiale di Francia ’98 uno strappo muscolare lo costrinse a dare forfait “pensavo che Di Livio mi avesse tirato un sasso - ricorda scherzando -. Gli infortuni accadono e fanno parte della carriera, quello arrivò nel momento meno opportuno. Così come un errore fu dire di no a Dino Zoff per l’Europeo del 2000. Mi chiamò e mi disse che avrei fatto il terzo con Buffon e Toldo che erano davanti nelle gerarchie. Peccato che poi Buffon si infortunò, Toldo fece un Campionato d’Europa straordinario e per poco non vincemmo. La cosa curiosa è che pochi mesi dopo mi ritrovai Zoff come allenatore alla Lazio: la prima volta che mi vide mi disse che ero un… E io ammisi di aver sbagliato”. Poi però, arrivò il Mondiale del 2006 e sul ‘treno’ Peruzzi ci salì: “Avevo 36 anni e alla Nazionale ormai non pensavo più. Fu Lippi a dirmi che avrei dovuto esserci e che non potevo rispondere di no. Fu un’esperienza davvero bella”.

I TIFOSI Insomma, Angelo Peruzzi è stato un grandissimo portiere, uno dei più forti della storia del calcio italiano (ma non glielo dite ad alta voce), ma soprattutto è stato amato, per il suo modo di essere e per la dedizione che ha messo in ogni causa, per ogni maglia indossata, che fosse la Nazionale o quella di un club. “Più che vincere una coppa è l’affetto dei tifosi che mi ha dato soddisfazione: ogni volta che sono tornato da ex ho ricevuto gli applausi della curva. Quando vai via e l’anno successivo hai delle dimostrazioni di affetto simili è una grande gioia: vuol dire aver fatto bene avendo lasciato un buon ricordo ed essendo stati corretti. Personalmente questo vale come vincere un trofeo”.

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