Calcio e Finanza
·13 septembre 2025
Al via la nuova stagione Champions League. Per la Serie A il pericolo è eguagliare un nuovo record negativo in Europa

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·13 septembre 2025
La stagione delle coppe europee, che inizia martedì 16 settembre con la tre giorni dedicata alla Champions League, potrebbe eguagliare un record negativo per la Serie A a livello continentale: da quando è stata istituita la Coppa dei Campioni (1955) l’intervallo più lungo durante il quale una squadra del campionato italiano non si è laureata campione d’Europa è stato quello intercorrente tra il 1968/69 (seconda coppa dei campioni del Milan) e il 1984/85 quando la Juventus vinse il suo primo massimo alloro continentale nella maledetta e tragica notte dell’Heysel.
Passarono 16 stagioni in quello iato temporale, come sarebbero 16 le annate senza trionfi se nella primavera del 2026 nessuna tra Atalanta, Inter, Juventus e Napoli dovesse alzare la coppa dalle grandi orecchie nel cielo di Budapest. Visto che per scovare l’ultima squadra di Serie A sul più alto gradino d’Europa bisogna risalire al maggio 2010 e al trionfo a Madrid dell’Inter di José Mourinho.
E va anche notato che in questi anni non sono mancate le opportunità, visto che per quattro volte, due la Juventus (2015 e 2017) e due l’Inter (2023 e 2025), una squadra italiana è giunta in finale. Come d’altronde si ebbero chance anche nel periodo tra 1969 e il 1985 quando prima l’Inter (1972) poi la Juventus per due volte (1973 e 1983) e infine la Roma (1984) si inerpicarono sino all’atto conclusivo del torneo senza però vincerlo.
Le analogie però terminano qui e non solo perché tra i due intervalli sono trascorsi quasi 50 anni, mezzo secolo che nel calcio equivale a un’era geologica.
Negli anni ’70/80 si trattava della vecchia Coppa dei Campioni, una sola squadra per Paese era ammessa al torneo più prestigioso (due nel caso che il campione uscente non fosse anche il campione del campionato nazionale) e i sodalizi dei campionati maggiori utilizzavano un minor numero di giocatori stranieri. Quindi se da un lato non c’era la competizione degli altri club della stessa nazione, dall’altro le squadre campioni di alcuni Paesi che ora sono di secondo piano erano altamente competitive. Si pensi per esempio ai team balcanici che sotto la comune bandiera jugoslava potevano vantare i predecessori di quei campioni serbi, croati e bosniaci che ora rimpolpano le rose dei club europei più importanti.
Oltre a questo, ci sono però anche differenze di natura prettamente tecnica. Stando ai bookmakers internazionali nelle finali degli ultimi 15 anni né Inter né Juventus sono giunte al match decisivo con i favori dichiarati del pronostico.
Invece nelle finali dei primi anni ottanta il discorso era diverso: la Juventus sfidò l’Amburgo da strafavorita (era nei fatti l’ossatura della Nazionale campione del mondo 1982 più Bettega, Boniek e Platini) e la Roma partì contro il Liverpool con altissime speranze anche perché il match si disputava tra le mura amiche dello Stadio Olimpico.
Entrambe le finali non andarono bene per i colori italiani però era evidente il segno di un movimento calcistico nazionale in netta crescita dopo che tra il 1976/77 e il 1983/84 le squadre inglesi avevano vinto sette Coppe dei Campioni su otto (unica eccezione proprio l’Amburgo nel 1983).
E proprio qui sta il punto. Dopo la riapertura ai calciatori stranieri nel 1980 e sulla spinta del trionfo della Nazionale nel Mondiale 1982 le finali dei primi anni ottanta erano il segnale di un movimento calcistico che stava per imboccare la strada di una crescita esponenziale che lo avrebbe portato a dominare la scena internazionale negli anni a venire.
Alle spalle c’erano imprenditori italiani, che dopo la stagione buia del terrorismo e dei sequestri di persona, non avevano più paura di esporsi e stavano capendo il potenziale di immagine ( e quindi anche di ritorno economico) che poteva garantire loro investire nello sport più popolare della nazione. Sono gli anni in cui Ernesto Pellegrini compra l’Inter nel gennaio 1984 e nella primavera annuncia l’acquisto dell’ex Pallone d’Oro Karl Heinz Rummenigge, nei quali a Napoli Corrado Ferlaino si assicura nientepopodimeno che Diego Armando Maradona, Dino Viola e Paolo Mantovani accelerano gli investimenti nella Roma e nella Sampdoria spingendo i rispettivi club a vette tuttora ineguagliate. Dal canto loro gli Agnelli acquistano per la Juventus Platini e Boniek e costruiscono una delle squadre più forti nella storia del calcio italiano e di lì a poco, comprando il Milan, entrerà nel calcio anche Silvio Berlusconi.
Come si diceva, dietro questa voglia di investire nel calcio vi era una imprenditoria italiana in salute con le grandi famiglie industriali che vedevano nel pallone un veicolo di immagine importante per i propri affari oltre alla voglia di sfidarsi nell’agone dello sport più popolare. Per la maggior parte delle volte però, e va detto a chiare lettere, non curandosi della sostenibilità economica dei club perché tanto dietro c’era un proprietario talmente dovizioso che era pronto a ripianare le perdite e a garantire i debiti.
Nella realtà attuale invece, per proseguire il parallelo tra i due intervalli di tempo, lo scenario è completamente diverso: come si accennava in un precedente appuntamento di questo spazio editoriale, sotto la spinta della globalizzazione il numero di famiglie industriali italiane talmente possenti da sostenere un club dalle grandi ambizioni europee sono ormai pochissime. E, a parte i sempre presenti Agnelli, quelle esistenti (i Delvecchio, i Ferrero, i Caltagirone per citarne qualcuno) non hanno mai manifestato l’intenzione di entrare nel calcio. Invece quelle che erano presenti, ad esempio i Moratti e i Berlusconi, ne sono usciti.
In questo quadro non ha torto il presidente dell’Inter Giuseppe Marotta quando dice che le proprietà americane, quelle legate ai fondi di investimento, sono una necessità per il calcio italiano. Senza di questi veicoli di investimento attenti al profitto, al ritorno sul capitale speso e alla sostenibilità economica del club (altrimenti sarebbe quasi impossibile uscire dall’investimento con lucro) e visto il disinteresse delle grandi dinastie industriali italiane lo scenario sarebbe ancora più opaco.
D’altronde a ben vedere il quadro attuale è la conseguenza, o se vogliamo l’epoca del pagamento del conto, di quell’epoca del mecenatismo sfrenato degli anni ’80, ’90 e del primo decennio del secolo (non a caso è del 2010 l’ultimo trionfo italiano in Champions League) durante il quale i conti dei club passavano in secondo se non in terz’ordine dinanzi alle ambizioni sportive.