Calcionews24
·5 luglio 2025
Claudio Marchisio a 360 gradi: «Kings League veloce e interattiva. Calcio italiano? Ecco cosa serve. La Juve mi preoccupa per questo motivo»

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·5 luglio 2025
Un’icona della Juventus e del calcio italiano che oggi esplora una nuova frontiera di questo sport. Claudio Marchisio, in una lunga e profonda intervista concessa a Walter Veltroni per il Corriere della Sera, si racconta a 360 gradi, partendo dalla sua nuova avventura nella Kings League.
L’ex centrocampista analizza con lucidità le ragioni del successo di questo format, perfetto per intercettare una nuova generazione di tifosi forse annoiati dal calcio tradizionale. Ma la sua riflessione si allarga presto, toccando con preoccupazione i nervi scoperti del sistema calcistico italiano: dalla crisi dei vivai, con un numero allarmante di stranieri che tolgono spazio ai giovani talenti locali, al cambiamento culturale che ha eroso il senso di appartenenza e il legame tra giocatori e club.
Un’analisi che parte dal nuovo per arrivare ai problemi di sempre, senza dimenticare uno sguardo affettuoso ma critico sulla sua Juventus, di cui invoca un ritorno alla “solidità”, e una riflessione sulla controversa visita della squadra a Donald Trump.
LA FORMULA DELLA KINGS LEAGUE – «È un evento che si alimenta della grande coesione che esiste tra giocatori e pubblico. La Kings League non vive di presenza fisica negli stadi, ma di un gigantesco pubblico virtuale che interagisce con il presidente di ogni società, di solito un influencer che raccoglie, mentre la partita si svolge, opinioni e critiche degli utenti delle piattaforme».
IL RAPPORTO CON I “NUOVI PRESIDENTI” – «Loro ci mettono tanto impegno, ci stanno male perché sono presidenti che, con i tifosi, hanno un rapporto immediato e di simbiosi. C’è veramente interazione sempre, non soltanto durante la gara, ma anche quando c’è il draft in cui, come nella Nba, bisogna scegliere i giocatori. Ci sono in campo ragazzi che hanno giocato in serie di calcio professionistiche o nelle formazioni Primavera di società blasonate che trasmettono tensione e pressione a loro coetanei che invece sono alle prime esperienze di grande visibilità».
PERCHÉ PIACE AI GIOVANI – «Sì, questo gioco è veloce e interattivo, le due caratteristiche richieste dai consumi dei giovani. I ragazzi si annoiano per la lentezza del calcio, per i regolamenti ferrei, per la vischiosità di un gioco in cui l’evento, il gol, è raro. Invece nella Kings League succede sempre qualcosa. Un po’ come nel tennis che, mi dicono, in alcune regioni stia raggiungendo, in termini di praticanti, il calcio. Da noi durante le pause tu puoi commentare con il presidente il gioco e lui ti risponde. Noi facciamo lo stesso allo stadio ma il presidente o l’allenatore lì sono irraggiungibili. Qui è tutto vicino, immediato».
L’ALLARME SUL CALCIO ITALIANO – «Parecchio. Io ora ho un’agenzia da procuratore e posso dirle che i dati di cui disponiamo sull’utilizzo di giocatori italiani sono davvero allarmanti. Due o tre anni fa il campionato Primavera l’ha vinto una squadra in cui non c’era neanche un italiano in campo. E solo il 2% di quei ragazzi extraeuropei è poi diventato un calciatore professionista. Il regolamento stabilisce che gli stranieri possono arrivare dopo l’under 16. Da quel momento in poi di ragazzi italiani ed europei se ne vedono ben pochi nelle formazioni giovanili. C’è anche un grande sfruttamento economico degli adolescenti delle parti povere del mondo».
LE POSSIBILI SOLUZIONI – «Bisognerebbe stabilire che nei campionati giovanili si possono schierare in campo al massimo tre extraeuropei, per arrivare a sei o otto nelle prime squadre. E poi il campionato Primavera un tempo era per gli under 19. Vuol dire che a quella età si finiva la trafila del calcio giovanile e si veniva proiettati in quello professionistico. È stato così che io ho giocato a 23 anni il primo Mondiale e a 26 il secondo, quindi nel pieno della mia forza fisica e agonistica e già con una giusta esperienza. Ora sono campionati under 20, in cicli triennali, e al terzo anno di primavera puoi trovarti a giocare con ragazzini di 17 anni, il che non aiuta la tua formazione. Rino Gattuso ha detto, nella sua presentazione, che il livello di presenza dei calciatori italiani si attesta poco sopra il 35%. Ci sono squadre in serie A che giocano senza neanche un ragazzo formato nel nostro Paese».
LA MANCANZA DI APPARTENENZA – «Non è facile, è cambiato tutto a livello culturale, non solo nel calcio. Anche nel lavoro: insegniamo ai nostri figli che, se non si trovano bene in un lavoro, devono subito cambiarlo. Ci sono ragazzi che se per un campionato stanno più in panchina che in campo, vogliono subito cercare un’altra squadra oppure sostengono che l’allenatore complotta contro di loro. Invece io chiedo loro se hanno davvero dato tutto. Perché le difficoltà si superano, non si aggirano. E così si cresce. Su dieci spostamenti di ragazzi, nove sono sbagliati. Alex Sandro arrivò alla Juve e mi chiese se ero matto, visto che stavo in bianconero dal 1993. Gli risposi che era il mio sogno e che restare alla Juve era come avere un domicilio in paradiso, era casa mia. I soldi sono importanti, ma non sono tutto. I giocatori che finiscono in campionati in cui l’unico valore è il denaro, si spengono dentro, a 28-29 anni sono vuoti».
LA PREOCCUPAZIONE PER LA JUVENTUS – «Non sono felice. Mi preoccupa aver visto poco affiatamento, non solo tra i giocatori, ma capisco che sono stati anni di grande cambiamento e bisogna ritrovare la bussola. Confido nel rientro in società di Giorgio Chiellini e, in campo, in Manuel Locatelli che ha imparato in fretta cosa è il dna della Juve. In panchina c’è un allenatore che ha indossato la nostra maglia. La Juventus ha bisogno di solidità, fuori e dentro il campo».
LA VISITA A DONALD TRUMP – «Sorpreso, specie per il momento. Non entro nelle dinamiche che hanno determinato questa visita che, se non ricordo male, non è la prima della Juve nello Studio Ovale. Mi ha colpito il volto dei giocatori e dello staff davanti agli argomenti esposti da Trump, ho visto che anche i due giocatori americani sono rimasti stupiti. Dalle parole pronunciate e dalle domande fatte. Due mondi lontani, che dovrebbero restare separati».
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