Archistadia
·14 maggio 2020
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Alcuni dei momenti più importanti della storia del calcio si sono svolti sul prato dell’Azteca. Pelé guidò il suo Brasile alla vittoria del Mondiale 1970, solo pochi giorni dopo l’epico 4-3 fra Italia e Germania. E sedici anni più tardi, Maradona scrisse il suo manifesto sportivo, mettendo insieme rispettivamente il gol più bello e quello più scaltro che si potessero immaginare.
Ma l’Estadio Azteca, monumento messicano all’architettura Modernista della seconda metà del Novecento, aveva avuto una genesi controversa, fatta di piccoli risvolti di malaffare e nepotismo come nella più classica delle dinamiche immobiliari comuni.
Lo stadio fu progettato dall’architetto locale Pedro Ramirez Vázquez, oggi riconosciuto per il suo uso virtuoso del cemento armato, e autore di perle dell’architettura di Città del Messico, come la Basilica di Nostra Signora di Guadalupe (1976) e l’edificio del Museo Nazionale di Antropologia (1964).
Prima di progettare l’Azteca, però, Ramirez Vázquez era un architetto praticamente sconosciuto al grande pubblico. Quindi, perché Televisa, il più grande gruppo di telecomunicazioni del Messico, decise di affidargli il disegno dello stadio nazionale? La risposta è: per una semplice questione di “contatti di famiglia”.
L’Azteca è un monumento al Modernismo, ma anche un manifesto del nepotismo che ha rovinato il Messico
Nella prima metà del ‘900, il calcio di Città del Messico era rappresentato da due grandi squadre, oggi nobili decadute: l’Atlante FC e il Club Necaxa. Non c’erano ancora il Chivas o il Club América a dominare la scena, come accade oggi, e il proprietario di Televisa, Emilio Azcarraga Milmo, nel 1960 decise di fondare la Sociedad de Futbol del Distrito Federal, insieme ai presidenti di Atlante e Necaxa, appunto (Azcarraga Milmo era anche presidente del Club América).
Con l’obiettivo di costruire il più grande stadio mai realizzato a Città del Messico, il board della neonata associazione invitò tre architetti per partecipare al concorso di idee: Pedro Ramirez Vázquez, insieme al suo partner Rafael Mijares, era in corsa con Enrique de la Mora e Félix Candela.
Candela, uno dei più importanti esponenti della scuola spagnola nell’uso del cemento armato, formatosi sull’insegnamento delle opere di Eduardo Torroja, e vicino ai dettami dello Strutturalismo, si era stabilito in Messico al termine della Guerra Civile di Spagna a causa delle sue idee nettamente anti-franchiste. A Città del Messico aveva già delineato alcuni edifici di pregevole fattura, come la Chiesa di Nostra Signora dei Miracoli (1953-55) o la Borsa Valori (1955) e, per il nuovo stadio nazionale, propose un impianto segnato dall’esposizione a vista degli elementi in cemento, studiato in partnership con l’architetto Luis La Guette.
Pedro Ramirez Vázquez aveva puntato su un progetto simile, nell’estetica, a quello di Candela ma, all’ultimo momento, decise di modificare alcuni spazi dando priorità all’inserimento di palchi privati in tribuna, un dettaglio che stava molto a cuore all’imprenditore delle telecomunicazioni, Azcarraga. Dalla vendita dei box, infatti, si potevano ricavare fondi importanti per finanziare gli alti costi di realizzazione dello stadio.
Ma, come fece Ramirez Vázquez a sapere che quella modifica sarebbe stata decisiva nel garantirgli la vittoria del bando? Suo fratello, Miguel, era il proprietario della squadra di calcio Club Necaxa, e uno dei membri fondatori della Sociedad de Futbol, e secondo le ricerche di Luis M. Castañeda, contenute nel libro “Spectacular Mexico” (acquistabile qui, in formato Kindle), svelò in anteprima al fratello architetto le specifiche di progetto che l’associazione considerava fondamentali. Miguel Ramirez Vázquez aveva acquistato il Club Necaxa, nel 1959, dal Sindacato nazionale degli elettricisti, una mossa che aveva aperto la strada della privatizzazione delle società sportive in Messico: la costruzione dell’Azteca aveva, quindi, definito questo percorso ormai irreversibile.
Supportato da favori familiari e contatti dietro le quinte, Pedro Ramirez Vázquez si aggiudicò il bando di progetto del gigantesco stadio nazionale (inaugurato nel maggio del 1966 con un’amichevole fra Club América e Torino), e si ritrovò in mano le redini per rinnovare Città del Messico e l’intera Nazione.
Solo due anni più tardi, nel 1968, sarà in carica come presidente del Comitato Olimpico Organizzatore e porterà i Giochi Olimpici nella capitale messicana (un’edizione in cui, per la prima volta nella storia, una donna accese il braciere olimpico, su sua precisa richiesta). Allo stesso modo, fu a capo del Comitato organizzatore dei Mondiali di calcio 1970, e nei decenni successivi continuò a spendersi in prima linea per progetti di rinnovamento urbano e di edilizia abitativa che potessero cambiare il volto del Messico, come gli interventi sul centro storico della capitale (1977-1982) e sullo sviluppo di Guadalajara (1982).
L’Estadio Azteca rimane, dunque, un fondamentale monumento del Modernismo architettonico. Ma è anche un manifesto del nepotismo che ha forse inquinato la società messicana, un amaro prezzo da pagare per lo sviluppo urbano ed edilizio del Paese.
Club América-Torino 2-2, 29 maggio 1966, Estadio Azteca, Città del Messico
América – Ataulfo Sánchez; Javier Martínez, Gilberto Vega (Juan Bosco), Alfonso Portugal, Martín Ibarreche; Víctor Mendoza, Arlindo Dos Santos, Alfredo del Aguila; Izidio Neto “Vavá”, José Alves “Zague”, Moacyr Santos, Jorge Gómez. All.: Roberto Scarone.
Torino – Lido Vieri; Natalino Fossati, Angelo Cereser, Giorgio Puia, Giancarlo Cella, Luciano Teneggi; Paolo Pestrin (Enrico Albrigi), Ulisse Gualtieri, Giorgio Ferrini; Schutz, Gianbattista Moschino e Luigi Simoni. All. Nereo Rocco.
Cover image: Photo by Hector Vivas/Getty Images