Pagine Romaniste
·29 ottobre 2025
Paparelli: “Papà ucciso dal razzo, mamma in depressione e sull’orlo del suicidio. Tragedia infinita”

In partnership with
Yahoo sportsPagine Romaniste
·29 ottobre 2025

La Gazzetta dello Sport (F.Pietrella) – Aggrappato a cinque parole da quarantasei anni. Con la punta delle dita. Con la forza del ricordo. Accompagnato da una mano invisibile che ancora oggi gli sfiora le guance e lo lascia furente sull’uscio di casa. “La prossima volta ti porto”, disse papà. Lo sto ancora aspettando”. Gabriele Paparelli, figlio di Vincenzo, il tifoso della Lazio ucciso da un razzo scagliato dalla Curva sud durante il derby d’andata del 1979, lo racconta con un filo di voce ogni 28 ottobre da quasi mezzo secolo.
Gabriele, cosa ricorda di quella domenica?
“All’inizio pioviccicava, poi uscì il sole e il cielo si aprì. Era una mattina come tante, in famiglia. Abitavamo a Boccea, in una palazzina dove c’erano zii e cugini. Io volevo vedere il derby. Lui mi disse che mi avrebbe portato “la prossima volta”. Sì, “la prossima volta…”. Me le ricordo ancora quelle parole”.
Che padre è stato Vincenzo Paparelli?
“Un uomo che ha sempre messo al primo posto la famiglia. Aveva un’officina, amava il suo lavoro, gli piaceva giocare a tennis, pescare e andare in bicicletta, ma la sua passione era la Lazio. Quel giorno rinunciò a un compleanno a Valmontone per andare all’Olimpico. “Vi raggiungo quando finisce”, disse lui, uscendo dalla porta. Io avevo 8 anni, ma avevo capito che c’era qualcosa di strano”.
Quando realizzò cosa fosse successo?
“La sera. Nel pomeriggio i vicini di casa mi portarono al lunapark, ma avevo già intuito. La vita della nostra famiglia non è stata più la stessa. Si è sgretolata in milioni di pezzi. Mia madre era con lui quando morì: gli estrasse il razzo dall’occhio provocandosi un’ustione. Aveva 29 anni, cadde in una depressione da cui non si è mai ripresa totalmente. Ha tentato più volte il suicidio. Io e mio fratello, che non c’è più da anni, siamo cresciuti col terrore di tornare a casa e non trovarla più. Non abbiamo avuto un’infanzia semplice: io andai da una zia, lui da un’altra. Ci hanno protetti”.
All’Olimpico sventola da anni un bandierone con il volto di suo padre. Che effetto le fa?
“Orgoglio, ma anche dolore. Ogni volta che entro all’Olimpico e la vedo penso a lui. Ma sono felice che renda mia figlia così fiera. Ha 13 anni, è tifosissima della Lazio, qualche anno fa andò allo stadio insieme al nonno materno e vide la bandiera. Quando rientrò mi chiese come mai Vincenzo fosse lì, tra i tifosi. Le spiegai tutta la storia per filo e per segno. Ne stavamo parlando anche domenica, durante Lazio-Juve. Mi ha chiesto se fosse possibile mandare un vocale in una radio romana per ringraziare pubblicamente l’autore di quella bandiera. Papà vive attraverso queste cose”.
La fobia per lo stadio ce l’ha ancora?
“Sì, e non penso che se ne andrà mai. Ci vado molto poco, più che altro per far felice mia figlia. Io sono e sarò sempre un tifoso laziale, ma sugli spalti mi tornano in mente i cattivi pensieri”.
Cos’è che la rende fiero del ricordo di suo padre?
“L’affetto. Ogni 28 ottobre leggo migliaia di messaggi di tifosi laziali di oggi e di ieri, adulti e ragazzini, romanisti, juventini. Anche se purtroppo sono ancora costretto a cancellare quelle stupide scritte sui muri che mi hanno perseguitato”.
Perché infangano ancora il suo nome?
“Me lo chiedo da quasi cinquant’anni, è un modo per colpire i laziali. La chiamano “goliardia”, ma goliardia di cosa? Sandri, De Falchi, Spagnolo e gli altri tifosi vengono rispettati, mio padre no. Mi tocca ancora leggere “10-100-1000 Paparelli” e bestialità simili. Una vergogna. Sono sempre meno, ma giro ancora con uno spray sotto il sedile per cancellare le scritte”.
La prima se la ricorda?
“Ricordo le lacrime di mia madre. Io mi svegliavo prima di lei, percorrevo il tragitto che avrebbe fatto e cancellavo tutto”.
Se oggi incontrasse un diciottenne scrivere un insulto sul muro cosa farebbe?
“Lo porterei al bar, io e lui seduti, e gli spiegherei chi è stato Vincenzo Paparelli. Il tutto attraverso il dialogo. Per tanti anni ho covato rabbia nel leggere quelle cose. Non si rendono conto che una famiglia ne è uscita devastata”.
Tra i giocatori chi le ha mostrato più vicinanza?
“Paolo Di Canio. Vent’anni fa invitò me e mio fratello a Formello e poi a pranzo. Voleva conoscerci e farsi raccontare nostro padre. Un gesto che non ho mai dimenticato. Negli anni, poi, ho ricevuto diversi inviti anche dal presidente Lotito”.
E delle istituzioni, invece?
“Walter Veltroni. Quand’era sindaco di Roma trovò lavoro a me e mio fratello. Disse che la città ce lo doveva. Poi inaugurò un parco in onore di papà, col suo nome. Una persona d’oro”.
Dalla Roma ha mai ricevuto qualche messaggio?
“Mai. Né Totti, né nessuno. Mi sono sempre chiesto perché”.
Ha mai incontrato Giovanni Fiorillo, l’uomo che lanciò il razzo e uccise suo padre?
“No. Quando era latitante ero troppo piccolo, non ho mai partecipato alle udienze e ai processi. Ma mi sarebbe piaciuto avere un confronto con lui, a dire il vero. Gli avrei chiesto “perché?””.
Come mai le morti di suo padre, di De Falchi e di tutti gli altri tifosi scomparsi negli anni non invitano le persone, gli ultrà, a far cessare in modo definitivo la violenza legata a questo mondo?
“Mi chiedo anche questo da tanti anni. Il calcio dovrebbe essere amicizia, al massimo sfottò. A tal proposito, vorrei mandare un abbraccio alla famiglia di Raffaele Marianella, l’autista del pullman morto a Rieti. La sua morte inspiegabile mi ha ricordato quella di papà. Non si può morire così”.
Il ricordo più bello che conserva di suo padre?
“La sua risata particolare, verace. Sembrava il gatto Silvestro. Mi raccontava di Chinaglia e Re Cecconi, si sarebbe innamorato di Immobile, Gascoigne e Boksic. Se vedesse la Lazio di oggi sarebbe incazzato, ma tiferebbe come non mai”.









































