Calcionews24
·5. Oktober 2025
Gigi Radice, il figlio Ruggero: «Lo scudetto del Toro nel 1976 indimenticabile, ma anche negli anni ’80 lui ha fatto molto bene in granata»

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Nel pantheon dei grandi del Torino, il nome di Luigi “Gigi” Radice risplende di una luce particolare, quella di un uomo che non si limitò a vincere, ma a ricostruire un’identità, a infondere un’anima. Il suo rapporto con il club granata non fu una semplice parentesi professionale, ma una vera e propria simbiosi, un’alchimia rara e potente. Arrivato sulla panchina di un Toro che faticava a ritrovare il suo posto tra le grandi dopo la tragedia di Superga, Radice non portò solo idee tattiche innovative e un calcio d’avanguardia ispirato al “calcio totale” olandese.
Portò una visione, un’etica del lavoro e, soprattutto, il coraggio di osare. Fu l’architetto del sogno, l’uomo che restituì ai tifosi granata non solo uno scudetto indimenticabile nel 1975-76, ma la gioia di vedersi rappresentati in campo da una squadra battagliera, spettacolare e inarrestabile. Un legame profondo, fatto di sudore, grinta e una passione incondizionata che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del Toro. Oggi sul Corriere della Sera ne parla il figlio Ruggero in un’appassionata intervista.
LA PRIMA IMMAGINE DELLO SCUDETTO DEL 1976 – «Papà portato in trionfo dai suoi ragazzi, sotto la curva Maratona. Immagini ed emozioni sempre vive, anche mezzo secolo dopo. E poi il piacere di andare con lui al Filadelfia, dove si respirava un’atmosfera bellissima. Anche se io, essendo del 1971, ho ricordi molto più vivi della seconda esperienza di mio padre, negli anni Ottanta, quando mi alternavo tra la Curva Maratona e lo spogliatoio dell’allora Comunale. Anche quel periodo fu molto bello e importante, il Toro giocava le coppe internazionali, dopodiché ha faticato molto a tornare su quegli stessi livelli».LA CELEBRITA’ – «Papà ha sempre tenuto un profilo basso, era una persona molto umile. Non ci siamo mai fatti prendere dal suo successo. Non ci siamo mai vantati. Anzi, qualche volta ci creava un po’ di imbarazzo il fatto che fosse riconosciuto per strada».L’INCIDENTE D’AUTO DEL 1979 CON LA MORTE DI PAOLO BARISON – «Ricordo molto bene, purtroppo. Erano stati compagni di squadra al Milan, poi Paolo diventò suo collaboratore tecnico. Fu un momento drammatico, tremendo. Papà fu miracolato, venne estratto dalle lamiere e rimase a lungo in ospedale con conseguenze serie. Inizialmente noi pensammo che mamma fosse con lui, perché avrebbe dovuto viaggiare con loro. Quell’incidente segnò molto mio papà, che al rientro in panchina subì diverse critiche».L’EREDITA‘ – «La passione per il calcio me l’ha trasmessa lui, così come la curiosità. Ma anche alcuni valori importanti come l’umiltà e lo spirito di abnegazione. Lo porto sempre con me, mi ispiro al suo modo di lavorare, di vivere. Ricordarlo è sempre un onore e un grande piacere. Ho voluto seguire le sue orme, prima giocando, anche se non ad altissimi livelli, e poi allenando: lavoro per il settore tecnico della Figc, la scuola di Coverciano. Vado in giro per l’Italia tenendo corsi per gli allenatori».L’ALZHEIMER – «Dire che è stato dimenticato forse è un po’ esagerato. Durante la sua malattia, che è durata circa dieci anni, c’è stato molto riserbo da parte nostra. Poi però, dopo che se ne è andato, abbiamo ricevuto tantissimo affetto».